[21/10/2001]
A proposito di mio nonno Manuel
QUASI UN CATALOGO
Antologia di scritti per Manuel Schatz
Ritratto di famiglia nell'occhio del cambiamento
È l'artista che sceglie che cosa guardare e che cosa trasformare in immagine. L'affermazione "questo è come vedo io" presuppone simultaneamente l'affernazione "questo è ciò che vedo io". La modalità stessa della visione diventa oggetto di visione. E se da una parte la figlia, che alla complessità di valenze dell'Eurasia ha preferito un'Europa nella sua essenza, e così facendo ha scelto la visione di una vita materiale e sociale ordinata in cui cose persone e volti sono contigui ai confini immediati del proprio senso (nelle poesie russe di Evelina Schatz dall'accostamento di due parole nasce per folgorazione il senso preciso di una piena comprensione di un fenomeno non reale), il padre dall'altra ha vissuto nel caos di un regolamento utilitaristico-sociale che interpretava attraverso il prisma della Scuola-dell'Arte-e-dello-Stile. Non solo, osservava questo stesso prisma come oggetto, tanto che la particolarità ottica ne ha determinato la particolarità del lavoro. Se Evelina è un artista europeo del secolo XX (e con lungo slancio fin dentro nel XXI!), Manuel è l'incarnazione dell'artefice medievale il cui contributo è quasi anonimo. Orientandosi prevalentemente al Grande Stile dominante dell'epoca, nel quale di volta in volta venivano assorbite slices of life (gli anni '30, gli anni '40, gli anni '50, gli anni '60 e gli anni '70), Manuel Schatz aveva la capacità di assorbirlo e farlo proprio, fino a raggiungere la piena sincerità. Così sono i suoi primi paesaggi ad olio, nei quali la pastosità della materia dei colori è la conseguenza diretta della densità della materia vitale profetizzata da Filonov, Cekrygin, Chlebnikov, Platonov e rimasta in piedi, nonostante la catastrofe del sistema totalitario, fino alla fine dell'Impero dei Soviet. Cosi è quella grazia matissiana di linee nei disegni degli anni '50 e '60, una grazia e una leggerezza portatrici di gioia di vita che mirano a una cosa sola – questo volto, questo corpo. Degli anni '70 è il passaggio allo Stile severo con l'innesto nella scuola moscovita e nei soggetti moscoviti , nel solco tracciato da Michajl Ivanov.
Il passaggio da una maniera all'altra è il sintomo formale di quella quasi anonimità di cui abbiamo detto. Ma questa anonimità non si compie mai del tutto ed è destinata a restare per sempre quasi, e ciò ha una ragione precisa: il mestiere, l'abilità individuale dell'artista. La tradizione scoltastico-accademica, accolta e fatta propria fino all'ultima goccia professionale, viene fecondata e spiritualmente animata dall'accettazione volontaria. In questo sta il segreto della creatività di Manuel Schatz: nella capacità di immedesimarsi e di attecchire in ogni stile, come faceva David Burljuk. I temperamenti artistici di Schatz e Burljuk condividono la stessa matrice. Nella pratica del fare arte, l'arte nel senso antico, consiste precisamente l'individualità artistica di Manuel Schatz.
La capacità/talento di fare arte si è rivelata trasmissibile geneticamente. Evelina Schatz, ovvero lo spirito creativo ereditato con il sangue ma portato fino a una furibonda follia, a un grado massimamente sanguigno (sebbene molti lavori siano impregnati di afflizione e si dichiarino parte di un più grande "inventario della melancolia"). Evelina Schatz è a se stessa il Grande Stile, variante individuale del Big Bang. L'universo si manifesta in lei con la stessa grazia non mediata con cui la Luna riemerge pigramente da una nuvola, e al passaggio trasforma gli oggetti nei loro contorni non quotidiani e non utilitaristici. L'arte, nel caso di Evelina, è assolutamente autoriale. Il suo io si erge dietro ogni ex-oggetto creato da altri nel quotidiano e per il quotidiano, ma ormai orfano di una qualsiasi utilità. L'individualità dell'autore di remelt (termine coniato dall'autore per i suoi assemblaggi - N.d.T.) abbraccia qualsiasi oggetto estrapolato dal turn over dell'universo. E viceversa qualsiasi ex-oggetto (o disoggetto) capitato nello spazio del remelt rivela inaspettatamente la propria natura universale. L'arte si dimostra un tratto individuale dell'anima e si palesa nella triade creazione-oggetto-universo, in cui tutti e tre i principi sono collegati attraverso l'io e percepibli in assoluta consonanza.
La profanazione dell'oggetto come tale, dell'oggetto come principio drammatico ed evenemenziale, dell'oggetto nella sua nozione orientale, è un fenomeno culturale della fine del XX secolo. Invece degli oggetti sono apparsi i segni, invece della dimensione oggettuale reale e tradizionale, la semiotica: se tutto è un testo, allora il mondo non è altro che un testo e non nutre alcuna necessità di qualcosa altro da sé. L'arte anonima o quasi anonima è una sorgente di casualità. La conoscenza e l'abilità poste al di sopra di ciò che si crea richiedono necessariamente l'innalzamento del proprio status facendo leva su ciò che viene prodotto. Al contrario, una collocazione individuale di sé come parte dell'universo fra parti di pari valore, per quanto di diversa natura, assicura lo stesso rispetto verso gli oggetti che verso se stessi (verso l'uomo) e la restituzione agli oggetti – e insieme a se stessi – dello status di esistenza umana. Si tratta in altre parole dell'implicazione etica della tesi heideggeriana. Remelt , o trans-essere, è una trasformazione dell'essere sia per eccesso, sia per analisi dettagliata delle parti del tutto. Il remelt è un'invocazione del passato e una chiamata dal passato, bypassando il presente e rispondendo con la presunzione alla presunzione. Il remelt è infine non tanto un mito, come il collage, di un universo sparpagliato, quanto piuttosto un intero, un insieme: "archeologia del futuro".
Dove finisce la biografia, inizia la storia.
Dove finisce la storia, inizia il destino.
Manuel Schatz nasce nel 1916 a Vinnitsa, piccola cittadina ucraina, nella famiglia di un falegname – un grande clan ebraico di personaggi chagalliani in volo fra le nuvole della Russia delle province, dispersi in tutto il mondo: chi in America, chi a Parigi…
A quindici anni entra come apprendista nel laboratorio di scenografia del Teatro di Vinnitsa. Nel 1931 si trasferisce a Odessa per frequentare la Scuola d'Arte.
Dall'autobiografia di Manuel: “Deluso dal formalismo imperante nella scuola, mi iscrissi a un istituto tecnico per l'edilizia, contando poi di passare alla facoltà di architettura dell'Istituto universitario edile di Odessa. Durante le vacanze lavorai come manovale nei cantieri e in una fabbrica di conserve… Iniziai a pubblicare caricature nel giornale locale Cernomorskaja kommuna. E alla 5a Mostra d'arte panucraina mi accettarono una serie di caricature. Così tornai di nuovo alla mia idea di diventare pittore.”
Il rifiuto organico di quello che allora si chiamava ‘formalismo' e un certo spirito di abnegazione per la ricerca di nuove forme nell'arte predeterminarono il percorso creativo e individuale dell'artista: Manuel Schatz era destinato a dipingere quadri nello stile sovietico del ‘realismo socialista', con il suo programma di riprodurre la realtà nelle forme stesse del reale. Paradossalmente, nella storia dell'arte il realismo sovietico resta lo stile più convenzionale, essendo la verosimilità del reale compromessa dal mezzo stesso: la tela. Lo stile nell'arte fu una delle grandi utopie di uno Stato che toglieva le vite e cancellava l'individualità. A Manuel toccò di perdersi volontariamente nel mestiere. Non a caso il realismo socialista non ebbe alcun punto in comune con il neorealismo in pittura, al contrario, con tutta la sua servile accuratezza di fattura delle immagini gli fu brutalmente ostile. Le radici della tecnica del realismo socialista non rimandano, come ritiene la storia ufficiale, al realismo del XIX secolo bensì alla matrice ideologica e all'evocazione reciproca di etichette. Le sue radici sono da cercare dunque nell'impressionismo con il suo tratto gestuale, il suo ‘colpo di pennello' verso un'espressione senza mediazioni, cromaticamente libera. L'unica differenza, nel realismo sovietico, fu la paura della luce. I paraocchi ideologici impedirono di vedere il colore e la luce nei quadri dei maestri del passato, facendo ripiegare verso scelte più sicure, per quanto prive di talento.
Nel 1933 Manuel Schatz si iscrive alla Scuola d'Arte di Odessa. Fra i maestri di Manuel Schatz, vi sono il pittore A.N. Stilianudi, il cui lavoro si collega alla scuola di A.I. Kuindzhi e alle tradizioni dell'impressionismo russo.
Nel 1937 si sposa con la compagna di studi Helen Müller, che alla Scuola di Odessa frequentava i corsi di ceramica e piccola plastica e con questo stesso nome firmava con successo i suoi lavori, tedesca nata a Philadelphia, vissuta a Odessa, scomparsa a Milano. Nel 1938 la coppia Schatz termina brillantemente il corso di studi e per decisione del Dipartimento artistico provinciale di Odessa viene indirizzata all'Accademia panrussa d'Arte di Leningrado per proseguire gli studi. Qui Manuel frequenta le classi di pittura di A.A. Osmjorkin, mentre Helen continua gli studi di scultura. Nello stesso anno nasce la figlia Evelina Schatz.
Nel 1941 Manuel Schatz parte volontario per il fronte, Helen rimane bloccata nella Leningrado stretta d'assedio, mentre la figlia Evelina è a Odessa sotto l'occupazione tedesca. Nel 1942 Manuel e Helen, ammalati di distrofia, vengono evacuati dalla città attraverso il lago Ladoga e spediti a Ufa, la capitale del Bashkorstan, allora Repubblica Sovietica di Bashkiria, dove si trovava già Evelina con il nonno e la nonna. Manuel Schatz diventa Vice Presidente dell'Associazione dei pittori della repubblica e responsabile della mostra per il venticinquesimo anniversario della Repubblica. A Ufa si occupa di design industriale e del paesaggio, lavora nei laboratori di scenografia del circo. La figlia lo accompagna quando lavora per il circo, e da allora la metafora del circo è presente nella sua poesia e nei suoi remelt. Evelina aiuta anche la madre nella decorazione dei visi di bambole in cartapesta: il piccolo mignolo della bambina di quattro anni, tuffato nel colore e premuto sulla superficie sporgente, coincideva esattamente con la gota delle bambole. I primi passi di Evelina come artista furono perciò il rosso delle guance di bambola.
A Ufa, Manuel Schatz inizia a formarsi cone ritrattista, si dedica ai ritratti di eroi di guerra e del lavoro. Nel 1944 la famiglia si sposta a Mosca, Manuel Schatz studia all'Istituto d'Arte Statale di Mosca V.I. Surikov sotto la guida di S.A. Gerasimov.
Manuel, Helen e Evelina Schatz vivono in un vicolo della città vecchia, in centro, occupando una stanza in una kommunalka (appartamento plurifamiliare tipico delle grandi città russe) insieme all'anziana paralizzata a loro data in affido, moscovita da generazioni, che per miracolo era riuscita a conservare i libri della propria infanzia prerivoluzionaria. Sono queste le prime letture d'infanzia Evelina. Insieme a quelle per adulti, che causarono un'insonnnia per tutta la vita: di notte Manuel dipingeva copie di quadri di grandi maestri e Helen gli leggeva ad alta voce. Evelina faceva finta di dormire: per paura di lasciarsi sfuggire anche solo una parola del Ritratto di Dorian Gray, rimaneva sveglia trattenendo il respiro.
Manuel Schatz ritrae diverse personalità di guerra. È di questo periodo la serie di ritratti di leggendari capi partigiani come G. Linkov Batja (1947), P. Vershigora e P. Brajko (1948) e S. Kovpak (1950), tutti autori di memorie pubblicate.
L'abilità di Manuel Schatz come ritrattista prende forma e si impone. La qualità della pittura traspare anche dalle vecchie foto in bianco e nero: ogni pennellata è pastosa, lo specchio della massima somiglianza possibile voluta dal realismo socialista riflette il soggetto e lo trascina fuori dalla storia, dalla biografia, dal destino di guerra degli eroi partigiani e del loro Leonardo: Manuel viene così soprannominato da P. Vershigora, ‘Leonardo dei partigiani'. Davvero ci ricordiamo delle gesta di coloro i cui ritratti e sculture abbelliscono i musei e le città del mondo? Fra qualche secolo Napoleone cadrà nell'oblio e il ponte di Arkol'sk potrebbe non esserci più. Ma la figura di Napoleone sul ponte di Arkol'sk, grazie al quadro che lo ha reso immortale, sarà sempre lì, incurante del significato storico del personaggio e degli eventi. L'arte è eterna nella sua carne, nella sua sostanza: sua, non del modello ritratto.
La domanda nella poesia di Evelina Schatz ‘Qual è la patria del poeta oltre lo specchio' trova risposta nella biografia del padre pittore: qui, in una pittura di ritratti che duplica e traduce l'originale in una realtà convenzionale al massimo.
Nei primi anni '50 Manuel Schatz esegue il ritratto del famoso cantante americano Paul Robeson e, insieme ai pittori V.I. Poljakov e I.A. Radoman, realizza l'enorme tela a olio Pesn' mira (La canzone della pace), dedicata al concerto di Robeson a Peekskill, negli Stati Uniti. I volti sulla tela popolata di gente sono un momento biografico reale di Evelina: i modelli per il pubblico in ascolto della ‘Canzone della pace' venivano dalle strade della sua infanzia…
Nel 1950 Manuel Schatz dipinge il ritratto del compositore R. Glier e dello scrittore italiano Giovanni Germanetto, riceve commesse di ritratti per l'Università di Mosca, il Museo centrale dell'Esercito, l'Accademia delle Scienze e la sala conferenze del Palazzo della cultura Voskresenkij.
Le sue opere sono custodite nelle principali raccolte statali (non bisogna dimenticare che negli anni del regime lo Stato deteneva il monopolio anche dell'arte): nelle Pinacoteche Cjuvashskaja e Voroshilogradskaja, nel Museo del Bol'shoj, nel Museo centrale dell'Esercito, nella Pinacoteca di Simferopol', nella Sala delle Esposizioni del Fondo dell'Arte, di cui fu membro del Comitato direttivo per la Sezione di Mosca dal 1961 al 1965, nel Museo Statale Russo e nella Tret'jakovskaja Galereja. Nel 1961 Manuel Schatz partecipa alla Mostra d'arte pansovietica e nel 1967 alla Mostra autunnale dei pittori di Mosca.
Torniamo all'angusta cameretta della kommunalka di Mosca nel dopoguerra. Di notte le veglie di tutta la famiglia, le letture ad alta voce, l'insonnia della figlia assetata del suono del linguaggio creativo (un giorno i compositori Kirill Volkov, Igor Rogaljov, Sergeij Slonimskij, Andrea Talmelli e Mario Ruffini scriveranno musica sui suoi versi, ammantando con suoni nuovi l'eco di quelli dell'infanzia), e le copie su commissione. Di giorno la pittura au plein air di Manuel Schatz.
In un primo tempo i dintorni di Mosca. Più avanti, raggiunta la fama, i paesaggi della Crimea, Gurzuf. Il colorito grigio-ocra di una Russia sabbiosa e argillosa, con un'aggiunta di verde e blu di Prussia, dona ai minuscoli paesaggi e alle nature morte di Manuel Schatz, molti dei quali esposti accanto agli epocali ritratti, il fascino di un archetipo. Paesaggi e nature morte sono fuori dal tempo, fuori dal solco biografico, fuori dal destino. La loro autosufficienza consiste nell'assenza di un soggetto e nella presenza del solo sguardo.
Alla fine del 1940 Manuel incontra Natalija Sushkina, discendente di un'antica famiglia nobiliare con alle spalle una solida tradizione di cultura musicale, che diventerà la compagna della sua vita.
Fra gli amici di Manuel Schatz vi sono lo scenografo D. Lider e i pittori V. Poljakov e A. Nikich, artisti che esprimo un'individualità assai più marcata della sua. Per questa generazione, gli anni '50 sono il tempo della ricerca intensiva e appassionata di un linguaggio proprio e necessariamente nuovo. Schatz non ricerca nulla di tutto ciò, è la sua bravura a guidarlo e a trovarlo. La sua è una ricerca del soggetto, di qualcosa di esotico, di fuori dall'arte. Come l'Africa nera: alla grande esposizione del 1957 presenta contemporaneamente tre ritratti di personaggi africani eroi del tempo, realizzati nello stesso anno.
Per i pittori della seconda ondata delle avanguardie russe, la ricerca di forme nuove e individuali si manifesta come reazione negativa e distruttiva al realismo socialista. Per Manuel Schatz gli anni '60 e '70 sono per la prima volta gli anni del rifiuto di questo metodo, una presa di distanza dalla carica innovativa della ‘seconda onda'. La sua capacità quasi medievale di fondersi con il ‘grande stile' dell'epoca lo tiene lontano tanto dalla ‘ricerca di forme nuove', quanto dallo ‘stile severo' e dagli epigoni del realismo sovietico. La sua abilità anonima e il suo talento senza appartenenza lo conducono fuori dalla grande corrente della ricerca del non-comune. E nelle tonalità grigio-ocra dello ‘stile severo' non riconosce nulla di familiare, non ritrova il proprio colorito, sempre sentitamente pastoso. Anche in questo periodo si concentra sulla ricerca del colore, inserendosi a pieno titolo nel ‘grande stile' della prima fase del modernismo russo e diventando quasi un fauve. Continuando l'esperienza degli impressionisti, utilizza come plein air i suoi primi lavori per creare paesaggi di grande formato.
Il filone del ritratto continua nella grafica: Manuel Schatz ha lasciato moltissimi disegni. Negli anni '70 e '80 continua attivamente ad esporre. Partecipa regolarmente alle mostre dei pittori veterani della Seconda guerra mondiale, sottolineando il proprio legame con una storia senza volto (il destino che genera la biografia) e una bravura fuori dal tempo, anonima, senza personalismi, senza appartenze a gruppi, correnti e gusti, senza nessi con alcun fenomeno transitorio. In questo periodo iniziano i viaggi in Italia.
In Italia esegue una serie di ritratti su commissione, i suoi paesaggi trovano parecchi estimatori. Conosce e diventa amico di Alvaro, Miro Silvera, Mario Tudor, Anna Maria Prina, Elvio Becheroni. I bloc-notes italiani sono pieni di schizzi di paesaggi mentre quelli moscoviti sono pieni di volti. Negli anni '80 collabora con il Fondo nazionale per la Pace, a cui dona diversi lavori. Le sue mostre comprendono paesaggi e nature morte che testimoniano una pratica allineata all'estetica della citata “seconda onda delle avanguardie russe”.
È come se non avesse voluto lasciare impresso il proprio volto nell'arte e invece quello degli altri, di quelli incontrati per caso, il cui destino aveva condotto sulla sua tangente, nemmeno tanto vicino. La sua mano è più ferma quando disegna che quando scrive una lettera. La sua morte giunge improvvisa come la morte di ogni vecchio alla cui presenza si siano tutti abituati, sebbene abbia accompagnato una dopo l'altra epoche storiche grandiose. Lo lasciamo qui, sulla soglia di questo ultimo evento autobiografico: il suo destino fu quello di una vita dentro e con lo stile, lontano da ogni epigonismo, immerso in un'anonima indipendenza da sé medesimo.
Vera Kalmykova
(traduzione di Eugenio Alberti Schatz)
In posa per Manuel
"Natasha, Natasha!!... Nasha Annushka prishlà! (È arrivata la nostra piccola Anna!)" Un'esplosione di gioia infantile. In due direzioni: verso l'adorata moglie, che considerava la giovane italiana appena entrata come una figlia amata e coccolata, e verso quest'ultima, che finalmente era arrivata.
E subito un'allegria incredibile accompagnata da domande a raffica: "Come sta? (ci siamo sempre dati del lei in 30 anni e più di amicizia!) Ha freddo? Ha caldo? Sete? Fame? Ha lavorato troppo?" Poi Manuel voleva sapere se Natasha avesse preparato i cibi preferiti della giovane ballerina italiana, amica della figlia Evelina e se li avesse tenuti in caldo o al fresco come si deve. E ancora, voleva sapere se Anna aveva notizie recenti dall'Italia, se i figli stavano bene, se non fosse triste, se non si sentisse troppo sola. E tutto questo avveniva almeno tre volte alla settimana! Tutte le volte che andavo in Brianskaja, come dicevo io, ovvero nella casa e nello studio del grande pittore Manuel Schatz.
Era un rito. Sono convinta che fosse un rito d'amore e propiziatorio al tempo stesso. Dico propiziatorio in maniera scherzosa perché io ero quasi sempre stanca e insonnolita (stavo alzata di notte per leggere e studiare, durante il giorno avevo molte lezioni e prove) e quando, finalmente, mi potevo sdraiare sul divano sul quale avevamo stabilito che sarei stata ritratta, il rischio di addormentarmi poco dopo era altissimo. Manuel era terrorizzato da questa possibilità e lo avrebbe voluto evitare in qualsiasi modo.
La prima volta che mi addormentai ‘in posa' fu un avvenimento che meritò un consulto familiare. Natasha e Manuel decisero di lasciarmi dormire ma al mio risveglio dovetti subire una lavata di capo da Manuel che mi spiegò perché “questo non si fa”. E infatti mi fece promettere di non farlo mai più. Invece... Ma questa è un'altra storia.
Posare per Manuel mi permise di vivere giorni estremamente interessanti, di veder nascere un quadro apprezzando da vicino la tecnica incredibile dell'artista e vivere umanamente un'esperienza ideale di amicizia e di famiglia con Manuel e Natasha. Manuel amava la vita, le donne, le belle cose. Era molto ambizioso e un po' narciso, e il suo charme, che lui usava a profusione, gli valeva un sacco di amicizie femminili. Era anche un po' tiranno ma come tutte le persone geniali sapeva, prima o poi, farsi perdonare.
Non dimenticherò mai la Brianskajadva (via Brjanskaja numero due), il suo clima russo-mitteleuropeo, l'aria sonnacchiosa ma intellettuale, i cibi raffinati, le posate dei tempi degli zar…. e tanto affetto e ammirazione nei miei confronti da parte di Natasha e Manuel. Una donna e un artista unici, abitanti di una Mosca che sempre vive di passato e di futuro.
Anna Maria Prina
Tale il padre, altra la figlia
In tanti anni non ho mai sentito parlare il nonno di politica, rivoluzione o comunismo. Né di arte o del suo lavoro. Mi ricordo di averlo sentito di rado parlar bene di qualcuno. Aveva sì un suo giro di amici ma non ne parlava con me. Parlava molto invece degli aspetti materiali della vita e dello stereo, dei soldi e della macchina fotografica, di case e dacie e automobili e dischi. Erano più che gadget borghesi, credo, i tasselli di un sogno per sfuggire a un paesaggio sociale così diverso da quelli che dipingeva. La fuga di un individuo consapevole del proprio talento ma solo, forse in fuga anche da se stesso.
La figlia ha continuato l'arte della fuga, solo spingendo il raggio più lontano, così che io sono nato in questa città. Però lei, Evelina, altrochè se parlava di politica, gli amici la conoscono per la passione quasi feroce nelle discussioni su tutto: su come educare i figli, sulle grandi ideologie, sul conflitto fra l'uno e i tanti, cioè fra l'artista e il mercato o il poeta e il mondo, sulle vicende amorose, sulla scienza e sulla musica. In un'età ellenistica di chiusura a riccio, ha saputo riaccendere, e sono in tanti a riconoscerglielo, il respiro dei salotti illuministici, anche se in una versione più portatile. Poeta di due lingue, l'italiano prima e poi anche il russo, forse anche per alimentare il suo cantiere poetico ha sempre guardato al mondo con generosa curiosità.
Quando Evelina ha iniziato – per qualche misteriosa spinta certamente in relazione con uno dei suoi tanti estri (ereditati o forgiati di sana pianta, fa lo stesso) – a fare arte, certo non si è messa a dipingere ritratti a olio. Inventando il suo piccolo esercito di incantevoli mostri semantici, ha costruito un linguaggio sofisticato, multimediale si dovrebbe dire oggi, con un dirompente messaggio etico. Quale? Che la bellezza ha il potere e anche il dovere di salvare il mondo. Evelina raccoglie ceneri e rifiuti della civiltà per plasmare un inno, tanti inni alla gioia e all'ironia, affrontando di petto il cinismo di tanti e l'indifferenza dei più. Platonica nel suo ardore di elevazione, aristotelica nella sua verve classificatoria, di tutto si può dire di lei tranne che non sia cittadina del proprio tempo e del proprio luogo, per quanto ampio. Questa d'altronde pare essere la tradizione dei poeti dall'anima robusta e anche un po'greve che vengono dall'est, amanti delle platee e dei bassifondi più che delle torri d'avorio.
Due figure, dunque, agli antipodi, due secoli che non si parlano, due persone distanti che hanno scelto mondi diversi. Eppure la forza del pittore Manuel, di quel cavalletto puntato sul mondo che sa creare fotogrammi pittorici di irresistibile piacere, mi pare assai simile alla forza dell'artista-poeta Evelina: li unisce il candore, il credere nel magnetismo delle proprie immagini oltre le tendenze e i main stream che poi tanto main non sono mai, il dono di trasferire nell'arte quella loro sensualità (entrambi amano ballare cantare viaggiare scherzare e molto altro ancora), il talento di amare ciò che si guarda e di farlo amare. La vita vince le distanze più grandi.
Abbiamo discusso a lungo con Evelina cosa fare di un parente che per varie ragioni non ha saputo inserirsi bene e con dolcezza nella staffetta delle generazioni di famiglia. Un parente così è una spina nel fianco che rischia di infiammarsi, bisogna fare qualcosa. Evelina, lo capisco adesso, attraverso il rispetto e l'ammirazione per i quadri che ha dipinto Manuel, sta cercando di dirmi che si può anche perdonare. Probabilmente ha tutte le ragioni del mondo, se è vero che l'arte è una forma dell'amore.
Eugenio Alberti Schatz
Ricordando Manuel Schatz
Avevamo una cosa in comune, ed era la nostra matrice ebraica. Ma mentre io la rendevo palese a ogni occasione, lui non la sentiva. Riflettendoci, eravamo però entrambi gente dell'esilio, di quell'esilio che dura ormai da migliaia di anni. Io credevo di vivere l'esilio italiano come un dono, mentre Manuel ha vissuto il suo in Unione Sovietica più profondamente e come una colpa. Lì nel suo paese, erano maestri nel metterti addosso colpe immaginarie.
Manuel era un grande pittore, ho subito amato il suo modo, così dedicato e serio, di fare pittura. Mi ha fatto dei ritratti, posseggo dei suoi evocativi paesaggi della campagna russa. Ecco, lì Manuel non era più in esilio: era a casa. Sapeva che la vera casa dell'artista è la sua arte, e dentro di sé la sua fuga oltre le frontiere. Quello era il Manuel che io ammiravo, e anche quello che mi mandava affettuose cartoline di saluto da Mosca, o piccoli ritratti di personaggi immaginari chiusi dentro le lettere. E poi c'era un lato oscuro di Manuel, una parte in ombra, sovente crudele con chi gli voleva bene. Come un cane disperato stretto nel collare dell'esilio, a volte aggrediva. Era una notte sua che nessuno di noi riusciva a capire. Ma sapevamo che dentro aveva un lato buono che aveva quasi timore a esprimere. Anche i suoi genitori, l'educazione subita, aveva contributo a farne un esule dei sentimenti in un modo irregimentato. Ora, liberato dalla catena e dal peso terreno, è solo la sua arte a parlare di lui. E ne parla bene, come di uno che è tornato a casa, nel paese senza confini né leggi che è solo dell'artista.
Miro Silvera
Un cosacco a Milano
Il giorno del suo arrivo a Milano ‘cercai' il cavallo poiché mi sembrò, Manuel, un cosacco. Coi suoi baffoni, accigliato, di memorabile babeliana Armata a Cavallo. Non c'era cavallo in quel grigio giorno a Milano, ma l'aura sì, c'era. Manuel Schatz apparve con la sua faccia forte, diretta e indagatoria.
Poi, un po' per i racconti della figlia Evelina ma molto nei suoi ripetuti viaggi in Italia, ho imparato a conoscerlo: aperto e determinato nelle richieste, ma gentile, attento. Artista preciso, acceso e luminoso nella tecnica dei ritratti, sempre psicologicamente potenti e frontali, dialoganti. Ma anche colorista vivido nei paessaggi russi, mai dimentichi della grande tradizione otto/novecentesca del suo immenso paese.
Coltivavamo la nostra amicizia, anche se manifestata con parole trovate in più lingue, un nostro esperanto. Nelle lettere che spediva con l'amicale generosità dei russi, inseriva sempre nuove parole italiane per farmi piacere, raggiungermi.
In casa e in studio tengo i suoi disegni. Disegnava come un fiume in piena e negli ultimi anni, disegnava soltanto.
Quando Evelina tornando a Mosca lo andava a trovare, egli indicandole una mia piccola opera appesa nel suo studio, ripeteva il gesto amicale del ricordo.
Amava le donne, il vino, nonstante gli infarti e ho memoria di memorabili bevute dove non si finiva sotto i tavoli solo per irrinunciabili questioni di stile. Un natale milanese, in casa Schatz, tentando di ‘insegnare' all'amico Tudor la tecnica russa di bere la vodka nei piccoli bicchieri d'argento, ingollando bicchieri su bicchieri, scolò la bottiglia sotto lo sguardo ‘cattivo' della figlia.
Cominciò a morire con la perdita della cara compagna. Durò ancora, aggrappandosi al suo vitalismo e alle ragazzine.
Di tanto in tanto, nelle mie giornate NO, quando l'occhio vaga nello studio alla ricerca di un appiglio, di una spinta per ripartire, spesso lo sguardo si posa su uno dei suoi piccoli ritratti a penna. E inizia, caro Manuel, il flusso del ricordo. E non è poco.
Alvaro Occhipinti
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