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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[19/10/2004]

Un racconto polit-surreale


Mito e antimito di Hemingway in Russia
Postfazione all'edizione italiana del racconto Odin na odin di Jurij Nagibin, 1982 (‘L'ultima corrida di Hemingway', Trento 1986, Reverdito Editore)


Ho di fronte la riproduzione di un manifesto che annuncia una serata dedicata a Ernst Hemingway: la conferenza sullo scrittore americano e la lettura di pagine delle sue opere si svolge al Museo letterario di Mosca. Siamo nel 1959, l'anno in cui esce, in due volumi, l'edizione sovietica delle opere scelte dell'autore di Per chi suona la campana. Il curatore di questa edizione e il conferenziere della serata del Museo letterario era Ivan Kashkin, uno studioso di letteratura angloamericana che gia negli anni Trenta aveva tradotto e analizzato l'opera hemingwayana e al quale lo scrittore americano aveva scritto nel 1935 e nel 1939 due lettere che, pubblicate nell'Urss nel 1962, costituiscono due interessanti documenti biografico-letterari.

Nella prima di queste lettere, datata 19 agosto 1935 dalla Florida, Hemingway sentiva la necessità di dichiarare la sua posizione estetica al suo traduttore e critico sovietico che con tanta passione si adoperava per far conoscere al lettore russo la sua opera (nel 1934 era uscita una raccolta di racconti, nel 1935 Fiesta, nel 1936 sarebbe uscito Addio alle armi e poi, nel 1939, La quinta colonna e una parte dei Racconti), ma che nei suoi giudizi dimostrava nei riguardi di quello scrittore "borghese" i pregiudizi della propria ideologia. Scriveva Hemingway: "Io non posso essere adesso comunista, perché credo in una cosa soltanto: la libertà (...) Lo scrittore è come uno zingaro. Egli non deve nulla a nessun governo. E un buon scrittore non sarà mai soddisfatto del governo esistente e leverà immancabilmente la sua voce contro il potere, la cui mano graverà sempre su di lui. Dal momento in cui va a sbattere contro una qualsiasi burocrazia, egli non può fare a meno di odiarla. Poiché non appena essa raggiunge una determinata dimensione, diventa ingiusta (...) Perché uno scrittore dovrebbe aspettare una ricompensa o un riconoscimento da un gruppo sociale soltanto o da un governo? L'unica ricompensa per uno scrittore sta nel far bene il proprio lavoro...". Con questo atto di fede Hemingway replicava a Kashkin che, fedele agli ideali del collettivismo comunista, vedeva nello scrittore americano il rappresentante letterariamente sopraffino di un individualismo privato di ogni prospettiva dalla incombente rivoluzione. Ma anche cosi Hemingway, anche se solo in parte tradotto e inadeguatamente discusso dalla critica, già negli anni Trenta conquistò in Russia una sua popolarità e con la sua opera iniziò un dialogo da parte di scrittori come Andreij Platonov e Jurij Olesha, anch'essi "zingari" e come tali ridotti al silenzio dalla "burocrazia" sovietica, ma "zingari" di natura speciale, perché in un certo senso coinvolti nell'ideologia rivoluzionaria di quella stessa burocrazia comunista che soffocava la letteratura ed eliminava tanti scrittori russi. Il rapporto di Hemingway con la Russia degli anni Trenta era davvero paradossale.

Meno paradossale, ma fedele alla logica del tempo, fu la conclusione di questo primo periodo della fortuna di Hemingway in Russia: nel 1940 la rivista "Internatzional'naja literatura" pubblicò una lettera di comunisti reduci dalla guerra di Spagna in cui Per chi suona la campana veniva condannato come una "calunnia" e una "deformazione" del "quadro autentico" della lotta antifascista. Il romanzo di Hemingway fu tuttavia tradotto da Kashkin, ma non poté essere pubblicato. Il dattiloscritto della traduzione ebbe però diffusione in Russia, negli ambienti intellettuali, come testimonia II'ja Erenburg nelle sue memorie scritte nel periodo del "disgelo". (Questo "terribile" romanzo hemingwayano poté uscire nell'Urss solo nel 1965 in edizione "chiusa", cioè non in vendita e accessibile in lettura con permesso speciale, e poi finalmente in edizione "pubblica" nel 1968, dopo una serie di incredibili vicende, cui non furono estranei dirigenti del partito comunista spagnolo, alcuni dei quali, come Dolores Ibarruri, erano contrari alIa pubblicazione).

In Russia Hemingway ritornò una ventina d'anni dopo la sua prima comparsa (ad essere esatti, il suo nome si trova nella stampa sovietica già verso la fine degli anni Venti). Che cosa era successo nei tre lustri che dividono l'ultima pubblicazione sovietica dello scrittore americano dalla traduzione russa di Il vecchio e ii mare che, per un altro paradosso, uscì nel 1955, se ben ricordo, presso il Detgiz, la casa editrice della letteratura per l'infanzia, non riuscendo prima ad essere pubblicato in edizione "per adulti"? Perché il nome dell'autore di Fiesta era uscito in quel periodo dalla sfera di lettura nell'Urss non richiede molte parole per essere spiegato: dalla seconda guerra mondiale all'ondata di nuove persecuzioni note col nome di zdhanovismo, tutti questi avvenimenti dovevano isolare ancora di più la letteratura sovietica, chiusa nell'invalicabile recinto del "realismo socialista", da ogni contatto con la letteratura e la cultura occidentale. Ma anche in queste asperrime condizioni Hemingway continuò a vivere clandestinamente in Russia e ad agire su alcuni giovani scrittori come Viktor Nekrasov, i cui romanzi di guerra e di dopoguerra hanno l'asciutta essenzialità dell'autore di Addio alle armi, la sua avversione per ogni retorica, la "tecnica dell'iceberg" che fa emergere nel testo una minima parte di ciò che sta "sotto" la sua parte scritta e che è presente solo allusivamente. II cambiamento, come si sa, cominciò dopo la morte di Stalin e si precisò nel 1956 con quell'inizio di autocritica del comunismo sovietico che prese il nome di critica del "culto della personalità".

Mettere il nome di Ernst Hemingway in questa situazione storica così eccentrica rispetto al suo mondo yankee e cosmopolita può sembrare strano. Ma se l'Europa va, geograficamente parlando, dall'Atlantico agli Urali, quando si superano i Carpazi, comincia un'altra Europa e forse un altro mondo, e anche uno scrittore come Hemingway, così "occidentale" nella sua tenace volontà di dominare le energie interiori e le sfide vitali, deve assoggettarsi alle vicende di un realtà che impropriamente si suole chiamare "orientale", ma che è una sintesi caotica di impulsi diversi: Eurasia, per di più sovvertita da un cataclisma rivoluzionario. In questa realtà storica nasceva dunque un Hemingway nuovo, I'Hemingway russo degli anni Sessanta, così diverso da quello sovietico degli anni Trenta. Questi ultimi erano gli anni dell'internazionalimo e dell'antifascismo, vissuti tragicamente nell'Unione Sovietica staliniana, mentre i primi, gli anni Sessanta, erano gli anni del "disgelo", cioè di una rinascita confusa di tutta la vita spirituale russa e, in primo Iuogo, di quella letteraria. Senza neppure tentare di caratterizzare questo decennio, che può anche essere definito "chruscioviano", e, tanto meno, senza pensare di arrischiarne un bilancio, basterà qui dire che questo periodo ricco di slanci e di illusioni segnò la fine dell'isolazionismo culturale e letterario sovietico: il lettore sovietico, non solo quello medio ma anche quello medio-alto che non appartenesse alla vecchia generazione, assistette a uno sbalorditivo e irripetibile fuoco d'artificio: suI cielo ancora torvo della cultura staliniana comparivano, abbaglianti, le luci dell'Occidente, dei suoi artisti e scrittori, assieme ai bagliori degli artisti e scrittori russi degli anni Venti (e poi anche di quelli dei primi due decenni del XX secolo), anch'essi censurati nell'eta staliniana ormai (quasi) chiusa. Era uno spettacolo entusiasmante, che, in Iuogo del vecchio internazionalismo ideologico, creava una sorta di ingenuo cosmopolitismo intellettuale, in cui entravano Picasso e il cinema italiano, Sartre e gli impressionisti, Brecht e Hemingway. Ho detto "cosmopolitismo", ma l'uso isolato di questo termine può trarre in inganno, se non lo si unisce alla passione ideologica nuova che aveva invaso larghi strati della neonata opinione pubblica sovietica, tesa a rivedere il suo passato politico (lo "stalinismo") con interventi critici coraggiosi, pur nella loro parzialità. Fu questo il periodo del "Novyj mir" (Mondo nuovo), la rivista diretta dal poeta Aleksandr Tvardovskij, il quale non può affatto essere definito un "cosmopolita", così radicato com'era nella realtà culturale russa: per Tvardovskij, come per altri scrittori russi sovietici, la "scoperta" più grande in quegli anni non era Hemingway, ma Ivan Bunin, uno scrittore russo che era emigrato subito dopo la rivoluzione e in Occidente, in Francia, aveva continuato e sviluppato il suo lavoro di grande e moderno scrittore realista (e, insieme, decadente), meritandosi un premio Nobel per la lettura. Hemingway e Bunin, dunque, come i due poli simbolici della rinascita letteraria russa degli anni Sessanta. Due nomi che non a caso qui associo in un nesso paradossale.

L'Hemingway russo degli anni Sessanta fu, direi, prima ancora che un fatto letterario, un fatto di costume o, se si vuole usare un termine che ha un'ingiusta connotazione di biasimo, di moda. Nel manifesto che ho ricordato all'inizio è riprodotta una foto dello scrittore americano che per molti anni diventerà un modello: maglione di lana ruvida, barba corta attorno al volto, sguardo fermo e disincantato. Hemingway diventava uno stile di vita o, almeno, di comportamento: dopo l'ubriacatura di ideologia, per lo scrittore sovietico cominciava la fase della sobrietà e, se non sempre della delusione, certo, per i migliori, della disillusione. Era un ritorno alle cose e ai sentimenti, a una realtà feriale e, insieme, festosa, contrapposta all'arido grigiore della letteratura dell'età staliniana. Come paradigma di vita Hemingway creava il tipo della nuova generazione che anche esteriormente (una studiata trasandatezza e una voluta rudezza) si contrapponeva al tipo del burocrate sovietico, il cui sembiante proprio allora si andava occidentalizzando: scomparivano lentamente i pantaloni a campana e le giacche goffe e il nuovo burocrate in colletto bianco tendeva ad assomigliare esteriormente a un manager occidentale (metamorfosi che solo in questi ultimi anni ha raggiunto qualche apprezzabile risultato). L 'Hemingwayano sovietico era, invece, l'esatto opposto e seguiva un'altra linea di occidentalizzazione. Ma l'imitazione dello scrittore americano andava al di là della superficie? Ovvero quello che ho chiamato I'Hemingway russo degli anni Sessanta se non all'Hemingway "vero" (chi potrà mai dire di conoscere il prototipo autentico delle sue infinite immagini?), era adeguato almeno alIa sua indubbia complessità?

Credo che il ritorno di Hemingway nella Russia del "disgelo" abbia creato una sua immagine simpatica, ma un po' puerile, facile, edulcorata. Certo, anche lo scrittore americano fu un buon antidoto contro l'intossicazione di ideologismo, un buon modello di ripresa di contatto con la vita, un buon maestro di sobrietà di stile. Ma era soltanto questo Hemingway? La sua lezione poteva essere semplicemente quella di un'apertura all'esperienza e di una trasposizione del vissuto nel nitore di una pagina senza retorica? Certo, la lezione di Hemingway è stata quella del "lavoro ben fatto", di un lavoro, letterario in primo luogo, che è sentito come un dovere da compiere nel modo migliore ad ogni costo. E, in questo senso, la sua lezione è stata etica, prima ancora che stilistica. Ma se il "far bene" (un libro, una guerra, una corrida, un amore, una morte) è il centro del mondo hemingwayano, un centro denso di tensione poiché non di tecnica semplicemente si tratta ma di una messa in gioco dell'intera esistenza, ci si domanda allora che cosa stia dietro o dentro questa spasmodica volontà di "far bene" certe essenziali operazioni nella quale non si avverte certo un imperativo di ordine religioso.

Questa fondamentale domanda su Hemingway manca nelI'Hemingway russo degli anni Sessanta, almeno nella sua immagine media allora diffusa. Era un Hemingway accattivante e felice nel suo sprezzo per il pericolo e per il sentimentalismo quello che, per fare un solo esempio e il migliore, costituiva un ideale di un allora giovane scrittore come Vasilij Aksjonov (che cominciò a pubblicare proprio nel 1959), il più "americano" degli scrittori sovietici e poi emigrato in America, dopo un processo di complessa maturazione. Non ci si domandava allora che cosa costituisse il nucleo vitale di uno scrittore che aveva visto e cercato situazioni estreme come la guerra e quei suoi surrogati che sono la violenza della caccia e della corrida. Non ci si domandava che cosa significasse lo stoicismo di questo poco "tranquillo" americano, sempre alla ricerca ansiosa dell'avventura, in Spagna come in Africa, o, per lo meno, del diverso, in luoghi come Cuba o l'Italia. In fondo, l'immagine sovietica dell'Hemingway anni Sessanta era il frutto di un ottimismo che nasceva da una troppo facile (facile intellettualmente, ma non politicamente, perché i tempi erano pur sempre inclementi) rivolta contro i miti del passato: contro questi miti ideologici si costruivano degli antimiti, psicologico-letterari, ricchi di energia, ma destinati a logorarsi; e tra questi antimiti c'era anche Hemingway. La "leggenda" di Hemingway, il suo "decadentismo" vitalistico e insieme sentimentale, si appannava: troppo facili sembravano le sue soluzioni a chi, come il lettore intellettuale sovietico della fine degli anni Sessanta, dopo il crollo delle speranze del "disgelo" e dopo la liberazione dai miti dell'ideologia grazie soprattutto all'opera di Solgenitzin, si apriva ora alla scoperta di Kafka, di Faulkner e poi di Joyce, di Musil, cercando altri orizzonti e altre profondità. In un suo romanzo anche Aksjonov dà uno struggente e ironico addio a Hemingway, idolo della sua giovinezza, "hidalgo del XX secolo", "Childe Harold dalla barba canuta". L 'hemingwaysmo, come un tempo il byronismo, tramontava, apparendo superficiale ed elementare come prospettiva: l'attuale crisi è troppo radicale per risolversi con pose sportivo-superomistiche, senza investire in un'analisi i fondamenti di una cultura e di una civiltà.

Il racconto di Jurij Nagibin, che qui viene presentato al lettore italiano, lo vedo come la distruzione dell'anti-mito Hemingway o, almeno, come la proposta di un'immagine dello scrittore americano che non solo si oppone all'Hemingway del "disgelo", ma delinea una visione tragica del suo destino e, direi, della sorte dello scrittore in generale o di un certo tipo di scrittore. Il virile stoicismo di Hemingway, il suo culto dell'ardimento eroico e dell'immediatezza erotica e quindi il suo odio per ogni forma di perbenismo e di sentimentalismo nascono da un vuoto esistenziale e dallo sforzo costante di esorcizzarne la forza distruttrice. La ricerca della vicinanza della morte è, per Hemingway, il modo più sicuro di sfuggire all'ossessione della morte e di quel suo preannuncio che è la debilitazione fisica, l'impotenza creativa, lo sfibramento del corpo e dell'anima. Dire che Hemingway è un nichilista romantico può sembrare inappropriato alle qualità lucide e rigorose della sua scrittura. Ma i grandi miti decadenti della morte e della carne (il diavolo, come ogni altra entità metafisica, è in lui del tutto assente) costituiscono le forze negativo-positive del suo modo d'essere e di apparire nella vita e nella lettura, la sfida che egli sempre di nuovo accoglie, fissando da vicino la morte negli occhi e superando l'inerzia della carne col lavoro "ben fatto". La corrida, più ancora della guerra e della caccia, è per Hemingway l'emblema dell'esistenza: qui l'uomo non è nel caos della battaglia e non gioca a un'impari lotta contro la belva, ma entra consapevolmente in uno spazio chiuso per affrontare un concentrato di energia e di violenza che egli deve vincere con una perizia tecnica e spirituale, rischiando la propria vita con levità, e scrutando la morte nello sguardo folle del toro, nelle sue corna, nella sua corsa. Il gioco che come posta esige l'esistenza ha l'essenzialità intensa di un rito, lo spietato rigore di un sacrificio, il fascino terrifico di un atto supremo.

La guerra, la caccia, la corrida sono le situazioni limite in cui il nichilismo hemingwayano riesce a superare il proprio vuoto e la propria ossessione. Ma c'è un'altra operazione che sopra di esse si eleva: la scrittura che fissa nella misura dello stile una guerra, una caccia, una corrida. Anche qui, nell'atto letterario, come nell'atto di violenza che chiama ed esorcizza la morte, si richiede quell'imperativo di "dover fare" e di "fare bene" che per un attimo copre il baratro del non-essere, del non poter-più-fare, dell'annientamento fisico e spirituale. Se la vita che sfida la morte è la forma più alta di autenticità, la scrittura che fissa questa vita, depurandola e depurandosi di ogni falsità, è la forma più alta di verità. Ma, insieme, la piu illusoria. La letteratura ha bisogno di una autenticità primaria sulla quale si eleva la verità essenziale del suo fare. Hemingway, forse più di ogni altro scrittore, ha bisogno di questa immediata autenticità vitale, la cerca e la sa riconoscere tra tutti i suoi surrogati. Il primo segno della morte sta allora nell'incapacità di vivere nella realtà autentica, sia pure contemplata come spettacolo, per cui la letteratura si devitalizza e si ammala di estetismo. La decadenza, da cui il decandentismo fugge nell'illusione di immergersi nelle acque salutifere della vita vera, comincia allora irreparabilmente.

Il racconto di Jurij Nagibin ci mostra la lenta morte di Hemingway. Non so se si tratti di un Hemingway "vero" e so che la storia della morte dello scrittore americano apparirà falsa e crudele a molti suoi ammiratori e amici. Ma l'immagine che Nagibin costruisce di Hemingway èe legittima tanto quanto quella dell'Hemingway virilmente radioso del "disgelo" e quanto tutti gli altri Hemingway che sono stati immaginati e delineati. La plausibilità dell'immagine di Nagibin è quella di un personaggio nato e cresciuto nella letteratura e diverso da altri Hemingway pensati o vissuti. Nel racconto di Nagibin Hemingway vive appassionatamente come esperienza autentica quello che invece è un autentico inganno, scrivendo le ultime pagine della sua vita: una corrida, che per il vecchio scrittore diventa la quintessenza di tutte le corride, è, in realta, truccata. Non banalmente truccata, ma congegnata con una fantasia che fa dei suoi protagonisti degli esseri non meno autentici, a loro modo, del duello mortale dell'uomo col toro. Ma questa realtà, così poco hemingwayana, resta fuori dello sguardo dello scrittore. E quando, ormai malato e più vicino alla morte, capirà l'inganno tesogli dalla vita, si uccide.

Quale è la logica poetica di questo Hemingway nagibiniano? Una logica, naturalmente, diversa da quella della biografia dello scrittore americano, e immersa nell'atmosfera culturale che abbiamo caratterizzato all'inizio, parlando dell'Hemingway russo degli anni Sessanta. Ho fatto più sopra il nome di Ivan Bunin, lo scrittore russo emigrato riscoperto anch'esso in patria in quello stesso periodo. Direi che Nagibin vede il suo personaggio, Hemingway, con gli occhi spietati di un Bunin sovietico, contestando il mito di Hemingway, quello facile e roseo del "disgelo", ma anche quello più sofisticato di tanti hemingwayani occidentali. Ne esce un Hemingway tragico e fragile, stoico e inerme, bramoso di vita e ossessionato dalla morte. Un Hemingway che, ingannato dalla vita, cerca e trova nella morte I'estrema autenticità. E che anche della morte fa una cosa che "si deve fare" e "fare bene". Come la pagina di un libro. Come una guerra. Come una corrida. Per vincere il vuoto. Per affermarsi suI nulla. 0, forse, per la prima, e ultima, straziante diserzione.

Vittorio Strada


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