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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[25/7/2000]

Alex Majoli nell´isola dei basagliani


Intervista con Alex Majoli


Come nasce il reportage sull'ex manicomio di Leros?
Ci sono stato per la prima volta nel 1994, poi sono seguiti una serie di viaggi fino al '95 durante i quali ho fotografato la chiusura del manicomio, che era considerato uno dei peggiori al mondo, un vero inferno… L'ho fotografato per sei mesi, nell'arco di un anno e mezzo. È il mio primo lavoro importante, perché non era commissionato da nessun giornale, era la prima volta che facevo un lavoro slegato dagli editoriali dei giornali.

Come è stata la tua esperienza a Leros?
Era da tanti anni che fotografavo il lavoro dei basagliani all'interno dei manicomi. Tra tutti questi lavori Leros era il più importante perché la situazione dei pazienti era veramente drammatica. Fotografare i matti è una cosa molto facile, sono già un soggetto potentissimo di per sé. Quello che mi interessava era mostrare l'energia degli operatori: un anno di lavoro in un posto del genere è come un concentrato di quello che i basagliani possono fare. C'era un'energia fortissima.

Hai lavorato all'interno di altri manicomi?
Sì, sia in Italia che all'estero. Ancora oggi, ogni volta che aprono un manicomio, cerco di andare a fotografarlo. Però non mi interessa mostrare a tutti i costi le foto. In questo caso mi sono convinto a mostrarle perché aveva un senso. Dopo quattro anni che avevo fatto questo lavoro, continuavo ad editarlo e rieditarlo (mi ha aiutato molto Ferdinando Scianna) e alla fine mi sono convinto, ho visto che poteva stare in piedi. Aveva un senso perché di Leros in effetti non si sapeva niente, c'erano soltanto le mie foto come documentazione. In realtà c'erano anche altri fotografi che cercavano di entrare ma non sono mai riusciti a ottenere il permesso di fotografare. Io ero in contatto con i basagliani da tanto tempo e quindi avevo avuto la lettera di presentazione.

C'erano anche dei giornalisti che si occupavano di scrivere?
No, chi scriveva erano sempre gli operatori e gli psichiatri. Comunque in Italia non sono usciti molti articoli.

È la prima volta che esponi questo lavoro?
L'unica volta che è stata esposta questa mostra è stata a Salvador de Bahia, alla Casa do Olodum, una struttura che rappresenta la coscienza negra degli schiavi portati in Brasile ed è gestita dal gruppo culturale Olodum. Sono tutti neri e suonano i tamburi. Sono i più bravi percussionisti del Brasile, danno i temi al carnevale e organizzano le celebrazioni degli schiavi. In questa Casa abbiamo messo in piedi la mostra, ce la siamo montata, autogestita, abbiamo dipinto i muri. Abbiamo fatto tutto così, lì per lì…

Tornando a Leros, qual'è stata la reazione dei pazienti al lavoro degli operatori?
Be', dopo trentadue anni in cui sei nudo, mangi come un animale, vieni picchiato e sei legato… Loro stessi non ci credevano, non si fidavano. Come fai a spiegare a ognuno di loro in continuazione che non devono più aver paura, che possono stare tranquilli? Era molto difficile. Molto spesso succedeva che il lavoro fatto al mattino dagli operatori, alla sera fosse completamente distrutto dai pazienti.

Una delle tue foto ritrae un paziente, Christo. La didascalia dice che lui era riuscito a uscire dal manicomio.
Sì, era riuscito a uscire negli anni Settanta. Una volta aveva raggirato il guardiano del cancello ed era uscito. Da allora faceva quello che voleva senza che nessuno lo trovasse. Un giorno era tornato chiedendo “C'è l'acqua calda oggi per lavarsi?” Il guardiano aveva detto no, e lui “Va be', allora torno domani.” Da quel giorno per vent'anni era entrato e uscito a suo piacimento. Era una persona intelligentissima, parlava inglese perfettamente. A noi chiedeva sempre “Ma perché hanno ucciso John Lennon?” e poi non riusciva a darsi una spiegazione sulla guerra, “Ma che roba è?”. Faceva un sacco di domande… come potevi rispondergli? Era un genio, simpaticissimo, proprio un signore. Arrivava lui al bar e... era bravissimo.

Stai seguendo altri progetti fotografici?
Il più importante adesso è quello sui porti nel mondo. Da tre anni sto fotografando le città portuali nel mondo. Ne ho fatte sei e me ne mancano dodici. Quindi, in proporzione, mi mancano ancora sei anni (ride). Alla fine vorrei arrivare a circa cento foto.

Cosa ne farai?
È un progetto che non è destinato unicamente a diventare un libro. Alla fine ci sarà anche uno spettacolo teatrale. Verranno proiettate le foto in sequenza, con i musicisti che suoneranno dal vivo e un narratore che leggerà un testo. Il titolo è già quasi ufficiale, si chiamerà Hotel Marinum. È come se ogni stanza di questo hotel fosse una città. Ma il fatto è che non capisci bene di quale città si tratti: il filo conduttore è il porto, non importa di quale città. La cosa interessante è che si ripetono sempre gli stessi riti. Le persone, le cose, i fatti sono in comune in tutte le città di porto. E poi si scoprono un sacco di segreti, di aneddoti. Lo sai che la pizza è stata inventata a Genova? E poi c'è tutta una serie di segni, di segnali che impari a vedere e a riconoscere...

Come è nata l'idea di questo progetto?
È nata per caso. Ho fatto due più due e... Perché io in realtà ho sempre fotografato quei posti lì, però non me ne rendevo conto. Poi sono nato a Ravenna (ride). Commercialmente Ravenna è il porto numero due in Italia, dopo Genova.

Quando hai iniziato a fotografare?
La prima foto l'ho fatta il giorno della comunione (ride). Quella foto vinse anche un concorso che si chiamava ‘Il vecchio e il nuovo'. C'erano due tizi che camminavano nel porto di Ravenna e sulla destra c'era una gru dell'Agip. Avrò avuto circa nove anni.

C'è stato un momento in cui hai realizzato di avere un tuo proprio linguaggio fotografico?
No.

Come è cambiata la tua vita professionale da quando sei entrato nell'agenzia Magnum?
Entrare alla Magnum è stato molto importante perché ha evitato che smettessi di fare foto. Ero stanco, vivevo quasi sempre in Sud America. Poi sono tornato a Bologna dove facevo solo cose commerciali per le case discografiche, avevo perso un mucchio di cose, anche la fidanzata. Non ci credevo più, in Italia non riuscivo a lavorare. Ero pieno di sconforto. Così ho preso un po' di foto, mal editate, mal messe nei plasticoni e le ho mandate a Magnum. E quando ero ancora lì a cercare di farmi pagare dalla Poligram, e facevo il cameriere pensando di mollare tutto, mi chiama Ferdinando Scianna e mi dice che mi avevano preso alla Magnum. Io mi ero persino dimenticato di aver mandato le foto… Così ho detto, va be', allora è meglio continuare a fare il fotografo.

Come funziona?
Sei rappresentato bene. Controlli quello che succede. Ti confronti con tutto il mondo.

Ti trovi bene con gli altri fotografi di Magnum?
Sì, per certe cose sì, altre situazioni mi fanno incazzare. Comunque è il posto più democratico che esista in questo ambiente.

Lavori ancora per i musicisti?
Mi chiamano ancora e dico di no. Tranne che per gli amici, per i quali lavoro gratis.

Cosa ne pensi della stampa italiana?
Praticamente non lavoro per la stampa italiana. Soltanto un po' per Amica che ogni tanto mi chiama e mi fa fare qualcosa.

La differenza tra la stampa italiana e quella straniera?
Enorme. C'è un abisso. Lavoro quasi esclusivamente con la stampa straniera. Per esempio il Kossovo lo seguo dal '93, per conto mio. A un certo punto mi ci ha mandato Medici senza Frontiere, così è successo che ero lì durante il casino. Ci sono ritornato nel marzo del '99, prima dei bombardamenti e sono stato là 25 giorni per conto mio, senza assignement. Dopo mi ha chiamato il Newyorker e poi il Sunday Times.

Pensi di avere dei maestri nella fotografia?
Quando ero molto giovane mi ispiravo a Weston, a Koudelka… Adesso mi piace molto Richard Billingham. Poi considero strepitoso il lavoro sulla Russia di Luc Delahaye. Bello veramente, dovresti vederlo.

Cosa dici di questo tuo primo libro su Leros?
L'impaginazione di questo libro è stata fatta male apposta: non volevo fare un libro fotografico. Anche la scelta di mettere il testo in copertina è stata fatta perché la gente deve leggere la storia, deve conoscerla: le foto sono fatte per conoscere questa realtà, non per vedere delle belle immagini. Quindi non aveva molta importanza che le foto fossero a destra o a sinistra o che non fossero tagliate nel mezzo.

L'editing delle fotografie è un momento fondamentale. Solitamente lo fai da solo o ti fai aiutare da qualcuno?
Da solo. Ultimamente però, mi faccio aiutare da Laura (la fidanzata giornalista – n.d.a.): perché tre o quattro volte lei aveva selezionato delle foto che io non avrei mai scelto e poi, facendole vedere a Koudelka, lui ha notato proprio quelle scelte da lei. Questo significa qualcosa. Comunque, il modo di fare l'editing, di scegliere la foto, cambia nel tempo. Ci sono per esempio delle immagini che un tempo amavo ma che adesso non riesco neanche più a vedere.


Valentina Carmi

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