[17/6/2007]
Timer, o dell’arte arroccata
Charles Avery
La ricerca di Charles Avery si concentra sulla 'vista', su quella particolare facoltà dell'artista di vedere ciò che gli altri non sanno vedere. Sin dai primi passi Avery ha impresso alla propria arte un carattere di rivelazione. Negli scritti – che sarebbe riduttivo classificare come annotazioni e che invece s'impongono come un'interessante propaggine letteraria del lavoro – il suo manifesto poetico prende la forma di uno storytelling, di resoconti di viaggi in dimensioni sconosciute.
Avery si muove come uno sciamano nel mondo delle ombre e dei fantasmi, il suo fine è ‘imbrigliare l'oscurità'. Secondo le parole di Avery, l'artista è solo, è un viaggiatore in mondi a cui la maggioranza delle persone guarda con scetticismo, ed è un ‘cacciatore di noùmeni', ossia un ricercatore dell'essenza delle cose. Avery disegna figure simboliche inquietanti che affiorano dall'inconscio e che proprio per questo possono risultare familiari, viste chissà dove e chissà quando. Come nel caso dei due cani acefali intrappolati l'uno nell'altro e sul punto di lacerarsi, o anche della processione di personaggi fuoriusciti da un mondo vittoriano, chierici in abito talare, uomini di piccola statura che protestano, donne sdegnate con gli occhialini. Le figure sono abbozzate ma volto, mani e piedi sono disegnati con un tratto vivido e artisticamente colto. Il fatto interessante è che (per esempio nel ciclo The Art Atom) una serie di linee e parallelepipedi avvolgono i personaggi, come se le loro azioni seguissero traiettorie prestabilite di attrazione e repulsione. Il mondo parallelo viene reso visibile, tangibile, reificato. Una delle particolarità stilistiche dei disegni di Avery è di confondere i piani, ossia di assortire immagini bidimensionali e tridimensionali, e di non stabilire la priorità di lettura dei piani in una prospettiva corretta. Tutto si incrocia, tutto è correlato, tutto accade senza distinzioni fra prima e dopo...
Stessa impalcatura metafisica la ritroviamo nelle installazioni che utilizzano sculture, in cui la disposizione delle forme segue una griglia di linee magiche o di associazioni numerologiche. Nel suo lavoro recente ricorre una postazione da laboratorio in cui si svolge il tema della simmetria: serpenti che si guardano allo specchio, la figura di un due che dialoga con il proprio doppio rovesciato (l'ironia non è involontaria)... Siamo nel mondo degli archetipi, dove non solo i diamanti sono per sempre.
Liu Ding
Ogni cosa ha un prezzo: i gioielli, l'oro, ma anche la bellezza, le aspirazioni al benessere, la sicurezza, la moralità... Liu Ding si interroga sui meccanismi con cui la società assegna un valore agli oggetti dei nostri desideri, ossia la misura di quanto della nostra vita siamo disposti a sacrificare per assicurarci uno specifico oggetto senza ulteriori negoziazioni. Sembra volerci dire che esiste una grande borsa valori mondiale in cui le azioni di ogni cosa salgono e scendono. In questa borsa le azioni fluttuano al ritmo della storia e dei suoi rovesciamenti geo-politici e geo-economici. In sostanza, Liu Ding ci invita ad essere saggi nel perseguire i valori, poiché ciò che oggi sembra assoluto domani potrebbe risultare desueto. Ciò che oggi sembra umile domani potrebbe risultare ricercato. E ciò che oggi è gusto dominante, domani potrebbe risultare kitsch...
Liu Ding si muove su una scacchiera di simboli piuttosto diretti: ricrea in galleria il picco di un vulcano e lo riempie di pietre preziose per irridere quegli uomini che vedono nella ricchezza la via più breve per salire in alto; trasforma dei simboli di potere come un martello, una pistola, un notebook e un mappamondo in feticci glamour ricoperti di un mosaico di brillanti; chiama un gruppo di decoratori cinesi tradizionali a riprodurre simultaneamente un unico dipinto, che andrà a formare un ambiente da show room di mobili in stile (o da sala mortuaria a Las Vegas); ricopre d'oro dei teschi; e ancora, appende un filo di perle su un albero post-atomico ispirato a un celebre disegno di Goya... L'albero è realizzato in una vetroresina rossa traslucida, ai suoi piedi galleggiano delle ninfee in cristalli del tipo Swarovski. Ed è proprio l'uso di questi cristalli sul crinale del cattivo gusto a trasformare la carica tragica del modello originale in farsa. È il medesimo effetto di ambiguità che produce una pietanza agrodolce su un palato non avvezzo.
Così è la vita contemporanea – non solo quella cinese – una spregiudicata intersezione di opposti che convivono placidamente, una rimozione continua di tabù estetici e morali, una pericolosa entropia che smussa le diversità di opinione... L'individuo è più libero, ma questa libertà comporta un carico di responsabilit? maggiore e non più delegabile. Il messaggio di questo artista erode le certezze, lavora per smottamenti, parla alle nostre coscienze prima ancora che si riesca ad erigere una difesa. Con gentilezza, ma non per questo con meno efficacia.
Thomas Hirschhorn
Un cerbiatto batte le ciglia in Norvegia, e in Messico scoppia un terremoto. Ogni azione, ogni gesto sono interconnessi, hanno un peso, e in definitiva possono determinare gli eventi. Thomas Hirschhorn vuole incidere sulla vita reale creando dei ‘luoghi incerti', transitori, talvolta realizzati con l'aiuto di persone comuni chiamate ad affiancare l'autore. Questi luoghi – non di rado esterni al circuito delle gallerie e dei musei, nelle strade, sotto i ponti… – sono realizzati con cartone, fogli d'alluminio, nastro adesivo, fogli strappati, tessuti, sacchetti, scatole di sigarette, modelli di aerei, animali di peluche… Riciclare non vuol dire cancellare ma reinterpretare, sovvertire il significato originario. L'insieme diventa un racconto di “corrispondenze non gerarchiche” messe in rete fino a raggiungere un'energia critica disturbante. Le sue macchine di brainstorming replicano il sovraccarico di dati visivi e testuali della civiltà dell'informazione: le guardiamo come un notiziario della CNN. A qualcuno la tecnica del collage potrebbe ricordare i merzbau di Schwitters e le pratiche dei Dada.
In realtà i lavori di questo artista svizzero sono specchi ustori che portano a cottura le contraddizioni del presente su un piano realmente politico: se il gioco una volta era andare a raccogliere biglietti del tram e altre tracce di vita quotidiana per poi ricreare in studio ambienti poetici, individuali, intimi, Hirschhorn rovescia lo schema e ricrea ambienti pubblici, aperti, ben leggibili, accogliendo la lezione (e talvolta l'ironia) di Andy Warhol. Hirschhorn è il prototipo dell'artista engagée, parla di politica, fa politica, esprime posizioni scomode su temi come la guerra, l'uguaglianza, la giustizia, crea contenitori di vita politica attiva dove le persone si incontrano e discutono. L'impiego stesso di materiali poveri è una scelta di campo precisa, in netto controcanto con l'accecante consumismo in cui vegetiamo.
Le sue opere possono anche far male. Un cane fa la pipì sulla foto di un politico svizzero in Francia, e in Svizzera scoppia il terremoto. È successo con la mostra Sweet-Swiss democracy nel 2005 al Centro di Cultura Svizzera di Parigi. Il corto circuito ha prodotto uno scandalo in piena regola. L'artista ha messo il dito nella piaga per far riflettere sulla democrazia malata. Il suo lavoro ci invita a non guardare dall'altra parte, a non delegare, a resistere a ciò che non si condivide. L'invito non poteva essere più esplicito.
Zhang Huan
Immerso nell'acqua, sospeso nell'aria, ricoperto di vernici, iscritto con ideogrammi fino a sparire, adagiato su blocchi di ghiaccio o avvolto in un sudario, accovacciato nella posizione del loto, avvinto al corpo di un asino o capace di farsi soffocare da un pesce, da solo o insieme ad altri corpi, vivente o replicato nel bronzo… ma quasi sempre nudo. Il corpo senza protezioni di Zhang Huan – forse il più noto e provocatorio artista cinese riparato negli Stati Uniti, che aveva 24 anni all'epoca di Tien An Men e che ha scelto come linguaggio principale la performance – è la scena di un disagio, di una plateale vulnerabilità in un mondo ostile che non si cura dell'individuo. “I have always had trouble in my life.” Il confronto con l'ambiente è conflittuale, durante e dopo ogni performance l'artista dice di provare paura, smarrimento, sgomento. Sono gli effetti collaterali procurati dai grandi temi in agenda nel mondo globalizzato: la disparità, l'oppressione, il rapporto masochistico con il potere, la precarietà del lavoro e dell'economia, la perdita di identità, la difficile ricerca dell'elemento trascendente, le contraddizioni del sistema dell'arte.
Eppure, le sue ‘cerimonie' (oltre 40 dal 1993 ad oggi) non si esauriscono nella presa di coscienza di un problema ma arrivano a sprigionare un'aura spirituale che muove alla conciliazione, all'inclusione. Il suo lavoro riassembla con disinvoltura materiali storici alti e bassi, da Rubens ai body builder americani e al tempio Shaolin, creando molteplici chiavi di significato. C'è però un fil rouge più forte degli altri: la volontà di trovare i meccanismi inceppati vicino, in loco, mettendo a nudo il senso delle cose e cercando di deviare il grande fiume della vita a piccoli colpi e con flessibilità e perseveranza tutte orientali, almeno dal nostro punto di vista. Dalla vita quotidiana vengono i cani, i pesci, gli uccelli e gli asini che costellano le sue azioni dal vivo (nei disegni anche tartarughe e dragoni).
Con la loro vitalità misteriosa e innocente, gli animali sono universalmente un richiamo alla pietas, alla capacità di patire a nome della collettività per espettorare il male, al non rassegnarsi alla censura intesa ben oltre l'allusione politica. Un occhio sofisticato e puro al tempo stesso fa di Zhang Huan una sorta di San Francesco dell'arte, che sfida il potere e cerca il dialogo con le creature del mondo senza chieder loro di esibire un passaporto. Ecco dunque l'asino in salita di Feather Donkey (2006) , metafora dell'intelligenza e della bontà che devono scalare una montagna.
Andreas Slominski
Nel corso della sua carriera artistica, Andreas Slominski ne ha collocate tante di trappole in giro per gallerie, musei e fondazioni. Trappole vere per topi e anche animali più grandi, realizzate in legno, vimini, filo di ferro, o strutturate come veri congegni per enigmatici domatori, con percorsi, gabbie e sportelli che ricordano gli attrezzi degli illusionisti per far sparire il contenuto. “Per me non è un gioco, è qualcosa di serio.” Suscitano un (prudente) sorriso, visto che apparentemente non sono state progettate per l'uomo, ma anche sconcerto e allarme, perché dai tempi dei tempi gli animali sono proiezioni dell'uomo. La gabbia è un oggetto umile, tuttavia eloquente, e ha il potere già a distanza di segnalare un rischio, un meccanismo crudele che contiene la morte. Dall'epica dei cacciatori che posavano trappole nella foresta di Jack London alla grande trappola oscura, gravida di minacce e di secondi sensi di Franz Kafka, in fondo il passo non è lungo. Restano sul terreno una manciata di domande che non avranno mai risposta: chi è il cacciatore e chi la preda fra pubblico e artista? si va a una mostra per restare catturati o per catturare? chi decide se si gioca o si muore?
Slominski non è solo un Fallensteller (colui che tende le trappole), che forte di un carisma beffardo soffia nel suo piffero portandosi dietro un corteo di critici, galleristi e divertiti spettatori. Ha utilizzato anche scale, passaggi che mimano i metal detector degli aeroporti, vecchie stufe, strutture in legno che sembrano traversine di una ferrovia senza destinazione, e ancora capote di automobili, porte per entrare in gallerie ‘sbagliate'. Le sue installazioni giocano con i concetti di ingresso e di uscita, indagano le condizioni dell'accesso e dell'esclusione, dell'agonia e della salvezza. C'è sempre un luogo in cui si vuole entrare quando si trova la porta chiusa, salvo poi – una volta dentro – cercare subito la via di fuga. È l'inquietudine della modernità.
Nel 2003, a Milano, Slonimski ha chiesto ai passanti di gettare le proprie chiavi di casa nel Naviglio Grande, promettendo che sarebbero state ripescate dai sommozzatori. L'arte si offre come un territorio dell'assurdo in cui sperimentare sul campo le relazioni di fiducia e di paura che si vengono a stabilire fra gli esseri umani. Giocare con le metafore consente di capirle, di smontarle, di perfezionarle. Per imparare a difenderci o per allestire trappole sempre più sofisticate. Liberi di crederci (e di caderci dentro).
Mark Wallinger
Mark Wallinger affronta di petto la prospettiva morale dell'uomo, la lotta fra il bene e il male, la simbologia della fede, la voce suadente del cinismo. Fa riflettere su temi scomodi come il cratere formato da vite svuotate di senso, il punto di vista delle minoranze, la storia vista con gli occhi dei vinti, i meccanismi con cui il potere conquista il consenso schiacciando le ragioni del singolo. Quello di Wallinger non è tanto un rimprovero, quanto piuttosto un invito a gettare uno sguardo più libero e complesso sulle cose, meno preconfezionato. In quasi vent'anni di installazioni, video, sculture e fotografie, ha esplorato un territorio molto ampio, dagli sport popolari alle bandiere, dalla Bibbia alla figura del Cristo, dalla musica sacra alla morte e al viaggio, e lo ha fatto in ambienti molto diversi fra loro, dagli stadi ai musei, dalle piazze alla cattedrali, dagli zoo alle metropolitane. “La storia dell'arte occidentale è la storia dell'arte religiosa”, afferma. Ossia della rappresentazione di un piano superiore che fa da specchio alle reali intenzioni di una civiltà, un'epoca o una classe dominante.
Il lavoro di Wallinger si configura come un'azione di marcatura e rimozione, anche radicale, di interferenze, pregiudizi, atrofie (pars destruens), quasi un'opera di pulitura, e subito dopo di possibile risveglio (pars costruens). Ne è un esempio il tema della cecità. Wallinger si fa ritrarre legato a una sedia elettrica con il viso ingabbiato. Scolpisce un Cristo bianco a grandezza naturale con una corona di filo spinato sul capo, i polsi ammanettati e gli occhi chiusi. Impersona un cieco con tanto di occhiali da sole e bastoncino bianco che cammina in direzione opposta al flusso della folla. Copre quasi per intero le immagini di un video con un rettangolo suprematista nero...
Il non-vedere diventa un'azione più potente di ogni visione triviale. E il buio, la crisi di significato, la sfiducia verso i simboli massificati sono il salutare reset, il presupposto di ogni rinascita (o conversione). Il nero cancella per rilanciare, spinge ad andare oltre ciò che si vede a occhio nudo. Il limite diventa sprone. Dannati sono gli uomini che pensano di vedere, quando in verità le loro retine registrano solo i simulacri di un mondo-macchina. Beati coloro che si interrogano e ci spiegano in modo maieutico che sanno di non vedere. Wallinger innesca nello spettatore una reazione a catena, che dalla catarsi può portare alla rigenerazione.
Eugenio Alberti Schatz
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