[1/8/2010]
Grattacieli portatili
Il gigante e i lillipuziani meneghini
L'incanto, questa cosa inutile e indispensabile come il pane.
Gio Ponti
I milanesi non sono un popolo tenero, e anzi, se penso al pubblico scaligero, direi con una punta di sardonica diffidenza verso il nuovo a tutti i costi, che sconfina in un pessimismo illuminato di stampo austro-ungarico. Sono imprevedibili, e possono fischiare tenori, direttori, monumenti e archistar. Così, il villaggio di marmo di Giovanni Muzio è diventato la Cà Bruta. I due soldati di via Tiraboschi che sorreggono il terzo morente sono diventati i Tri Ciucc. I tre grattacieli City Life sono il Diritto, lo Storto e il Curvo, quasi il titolo di un film di Sergio Leone. Il monumento di piazza Tricolore è diventato l'Aquila che piscia (umorismo da tassisti) e la grande struttura con fibre ottiche di Ian Ritchie proprio di fronte al Pirelli è stata ribattezzata da Emilio Tadini la Branda. Tanto potente è stato il nomignolo, che l'hanno smontata e portata via in fretta e furia…
Il Pirelli, avrebbero potuto ribattezzarlo la Stalattite, ficcatasi nell'asfalto per forza di gravità. O l'Astronave, per le sue sembianze futuribili. O la Padella, per il suo profilo così piatto, magari anche la Sogliola. Ma non l'hanno fatto, anche se avrebbero potuto ribellarsi: a Milano non c'erano i grattacieli, e la stessa Torre Velasca è un ibrido, un quasi-grattacielo. Giorgio Soavi, dopo il viaggio in America, scriveva in un suo romanzo che «In Italia non è quasi mai esistito il profilo di una città nel cielo».
Ma no, non c'era bisogno di dargli un nome perché ai milanesi piaceva e l'hanno accolto subito come un segno della città. Nel film La vita agra, tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi, Ugo Tognazzi visita i grandi locali tecnici come se fossero una cattedrale, e si lascia cullare dalla vista di dominio sulla città. Avrebbe dovuto far saltare tutto con la dinamite, poi ci rinuncia.
L'edificio sorgeva sull'area dei vecchi stabilimenti detta la Brusada, tanto per rimanere in tema di epiteti. Nasceva come un'operazione pubblicitaria: una silhouette pulita, grandi nomi dell'architettura e del design, la prima sede di un'industria separata dalla produzione, una forma perfetta per essere letta e memorizzata – la sezione in pianta è un chicco di caffè –, una campagna di lancio, e subito le cartoline dai tabaccai. The Architectural Review lo definì billboard image. Nasceva per essere un segno, o come si direbbe oggi icona, landmark.
Quella torre compatta era un cancello del cielo per i futuri abitanti di Milano appena sbarcati dal treno (celebre la foto di Uliano Lucas con la triade immigrato-valigia-grattacielo) ma anche per gli abitanti di sempre, la risposta di uno spirito laico all'eclettismo mistico da romanzo Salgari della Stazione Centrale (bellissimo, per carità), e anche una rivendicazione di altezza commisurata al prestigio economico della metropoli.
Che cosa avrà detto Gio Ponti di fronte al modellino di nove metri realizzato da Pier Luigi Nervi per verificare la statica? Sarà nato allora l'aforisma "L'architettura è un cristallo"? Nei Pirelli portatili di De Zan si tramanda la memoria di una stagione, come la vita di un moscerino racchiuso nell'ambra. Carta e cemento si deteriorano, i segni/sogni no.
Eugenio Alberti Schatz
torna a Torna a Testi pubblicati
|