[9/1/2010]
I racconti di Annie
1. Il cliente perfetto
Il signor Russo era pingue, con gli occhiali, napoletano e spiritoso. Aveva quel senso della vita che hanno solo coloro che hanno visto passare molta acqua sotti i ponti, insieme alle immondizie, alle bottiglie di plastica e ai cadaveri dei suicidi (ma quasi mai, chissà perché, quelli dei nemici): infatti aveva superato la sessantina. Il signor Russo aveva una bottega di falegnameria nel cortile e si cimentava anche nel restauro dei mobili antichi, che per vostra informazione sono quasi sempre delle cassettiere in stile ereditate da quella zia che per impazienza ha rinunciato già dai tempi di Mussolini al matrimonio, scegliendo quella sponda oscura in bilico fra eccentricità, astio e solitudine che i più si ostinano a classificare come zitellaggine, o singletudine nella sua nomenclatura moderna.
– Signora, ma dove corre, ho messo su il caffè che le piace tanto. Entri, vedrà che gli impegni non scappano.
– Ma sì, signor Russo, ha ragione lei. Non morirà nessuno per un caffè.
– Si sieda, le faccio posto qui, accanto a questo bel putto del settecento. Sto uccidendo le tarme una a una, ci vuole una pazienza e una buona dose di cattiveria… Certe volte mi sembra un genocidio, povere tarme, proprio una brutta morte.
– E questa sedia così conciata?
– Ah, questa è tutta una storia. Lei non immagina come mi piacerebbe metterci le mani, smontarla e rimontarla come un motore, sistemando lo scheletro, curando le giunture e facendole tornare il colorito d'una volta, come so fare io. È un legno rosso di qualità, dalle venature così docili, così regolari. Sarebbe un gran bel piacere ma…
– Ma?
– Il cliente non vuole.
– Come sarebbe non vuole?
– Mi ha pagato in anticipo per non toccarla, solo per tenerla qui fino a quando morirà.
– Che tipo strano.
– Dice che non è giusto cambiare il naturale corso del tempo, che l'uomo non può arrogarsi questo diritto. E che questa sedia deve invecchiare, e caso mai morire con lui. Sa, al momento non ho trovato le parole per obiettare. Se ci pensa, la sua richiesta non è del tutto priva di senso.
– Se lo dice lei. Ma perché l'ha portata qui?
– Sua moglie è svizzera e non sopporta le cose rovinate e fatiscenti, perché le fanno tristezza. Secondo lei, solo un malato di mente non vorrebbe curare le cose che gli stanno intorno. Quindi mi paga il deposito e ogni tanto viene a prendere il caffè. A dire il vero, mi paga molto di più, cioè come se la restaurassi all'infinito.
– Non poteva portarla in un deposito a noleggio?
– Dice che forse alla sedia fa piacere stare in un ambiente stimolante, accanto a chi sa apprezzare le cose di valore, così invecchia con dignità. In fondo io voglio bene a tutto ciò che passa di qua.
– Ha trovato il cliente perfetto: la paga per non fare ciò per cui la paga!..
(15 aprile 2006)
2. Il maggiordomo perfetto
Quella mattina Tadeusz lasciò correre lo sguardo sul guardoroba con una particolare nota di compiacimento. Si sentiva come un signore che cavalcasse al mattino fra i campi della tenuta in cui era nato, misurando l'ampiezza del fondo con la stanchezza del proprio cavallo e degnando di uno scatto del capo appena visibile a occhio nudo i contadini che lo salutavano con il cappello in mano, sospesi fra ammirazione, timore e misterioso disagio. Passò in rassegna le giacche da caccia, da camera, quella da sera e anche l'alta uniforme. Ispezionò la parata di scarpe, maniacalmente conservate in tensione dalle forme in legno regolate dall'artigiano che le aveva confezionate. Controllò le pile di camicie di lino, cotone, seta e anche di flanella per l'inverno, quando le battute di caccia al lupo potevano protarsi fino a sera inoltrata. Da tutto – dalla qualità suprema delle cose e dalla cura in cui vegetavano – emanava un profumo di ordine, freschezza e amorevole intelligenza. E quel risultato era opera sua, l'opera di una vita dedicata all'ordine degli altri.
Poi, per un incontrollabile impulso, accadde l'inaudito. Il conte sarebbe stato via fino a tardi, era in città a una riunione del circolo degli scacchi. Tadeusz con fare pacato ma fermo entrò dentro uno di quei vestiti, si infilò una di quelle camicie e indossò un paio di quelle scarpe. Si allacciò le stringhe con la stessa concentrazione sul punto di esplodere con cui un pittore firma il proprio capolavoro. Gli andavano a pennello. Registrò con la coda dell'occhio il cenno di approvazione di uno degli avi del conte (chissà perché proprio quel ritratto era finito in esilio nella camera da letto, lontano dall'inquietante assemblea di morti dipinti che dominava la grande e austera sala da pranzo al piano terra, chissà che cosa doveva aver combinato). Adesso era chiaro che cosa avesse da sorridere sottotraccia per l'eternità.
Cominciò a muoversi. Diversamente. Lontano dalla compostezza a cui aveva abituato gli altri abitanti della dimora. Qualcuno che lo avesse conosciuto bene in tanti anni di servizio ineccepibile avrebbe potuto dire che si era fatta strada in lui una certa arroganza, un piglio nuovo, un senso di potere. Fece gli scalini facendo risuonare i tacchi con ostentazione. A metà della scala, guardando lontano dall'immensa finestra, intravide un'auto nera seguita da un camion telato. La croce maledetta si vedeva benissimo già da lontano. In tre, massimo quattro minuti sarebbero arrivati al castello.
Entrò in salotto. Si versò un bicchierino di sherry, che buttò giù a piccoli sorsi ma senza pause prima di sedersi nella vecchia poltrona. Prese fra la mani il libro che il suo padrone stava finendo di leggere (non è così importante il titolo, ma il fatto che il segnalibro fosse inserito esattamente una pagina prima della fine sì). Accarezzando il dorso, si ricordò di una delle ultime lezioni alla scuola per maggiordomi di Londra. “Per quanto alto sia il grado di immedesimazione nei bisogni e nei desideri di chi servite, non fatevi mai prendere dalla tentazione di prendere il suo posto.' Che assurdità! Una vita spesa a proteggere, prevenire, anticipare, ottimizzare, filtrare, non poteva essere cancellata nel momento estremo. Se la situazione lo richiede, il maggiordomo perfetto eccome se si deve sostituire. Una morte non vale una vita.
Quando l'ufficiale tedesco battè sulla porta, Tadeusz lasciò passare i trenta secondi canonici. Poi aprì. Senza lasciar trapelare alcuna emozione, disse al giovane tenente di Amburgo dal volto pallido e insicuro (non era nemmeno riuscito a dire senza farfugliare ‘Il Conte ***, suppongo.'):
– Sono pronto. Possiamo andare.
(26 giugno 2006)
3. Il critico perfetto I
Suo nonno era pittore, suo padre gallerista, e lui – per rimanere in tema senza però mettere i piedi in orme già pronte – decise di diventare critico d'arte. Era molto informato sulla scena internazionale e nazionale, andava a tutte le inaugurazioni, scriveva su una paio di riviste importanti. L'unica cosa che non facesse, per scelta estetica, era di andare ai talk show della televisione. Il suo timbro professionale era l'understatement.
I suoi testi erano asciutti e scorrevoli fino all'entropia, sembrava un columnist anglosassone più che un sanguigno commentatore latino. Le sua frasi erano secche come pali del telegrafo, soggetto verbo e complemento, e seguivano alla lettera la lezione di Stevenson: paragrafi interi senza mai un aggettivo. A leggere con attenzione, non faceva altro che riverberare il pensiero e le parole dell'artista. La sua funzione interpretativa si avvicinava allo zero. (Questa analisi sui suoi testi viene fatta per la prima volta, in realtà nessuno legge mai i testi dei critici, anche quando sono affermati, come nel caso di Augusto Quadri, la persona di cui stiamo raccontando la storia.)
Gli artisti erano contenti perché non si sentivano fraintesi o manipolati, e perché nei suoi scritti ritrovavano il proprio pensiero senza distorsioni. I galleristi e i direttori di musei erano contenti perché non avevano mai problemi a farsi approvare i testi dagli artisti. I direttori di giornale erano contenti perché stava dentro negli ingombri con una precisione maniacale, cioè se doveva scrivere un testo di 1200 battute, lui scriveva un testo di 1200 battute, non una di più o di meno, e consegnava sempre in tempo.
Poi un giorno accadde la tragedia.
Un artista della capitale fattosi notare per le sue installazioni concettuali, in occasione di una mostra importante, espose un lavoro radicale che consisteva nel non intervenire in alcun modo nello spazio della galleria. In sostanza non fece nulla. Venne diramato un comunicato stampa in cui la mostra era intitolata Senza titolo. Il testo in catalogo di Augusto riportava il titolo Senza parole, ed era seguito da tre pagine bianche. All'inaugurazione artista e critico non si fecero vedere. Le persone si sentivano un po' smarrite, ma certo non vollero essere da meno dei 3.000 parigini, fra cui molti notabili, che nel 1956 a piccoli gruppi o da soli entravano nei venti metri quadrati della galleria di Iris Clert lasciata vuota e dipinta di bianco. Fecero finta di aver capito. Perciò bevvero lo spumante, risero allegramente, dissero cose intelligenti e poi se ne andarono al ristorante a parlare di fondi d'investimenti, amanti russe e viaggi globali. Augusto e l'artista si erano parlati una sola volta al telefono ed erano d'accordo su tutto.
Fu l'ultimo intervento critico di Augusto. Il suo corpo non fu mai ritrovato, ma il biglietto d'addio riportava la celebre frase di Wittgenstein ‘Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.' Prima di morire, la sera stessa dell'inaugurazione, distrusse tutto il suo archivio.
(9 marzo 2007)
4. Il critico perfetto II
Paolo *** era annoverato fra i più autorevoli, seri e preparati critici musicali del paese, anche perché scriveva da oltre vent'anni con regolarità sul più importante quotidiano nazionale. La sua scrittura fluiva come un baldacchino del Bernini, fra mille rivoli, deviazioni, incisi, e una profusione di parole desuete. Era un critico vecchio stampo, di quelli che non avevano paura di prendere una posizione ferma, entusiasta o disgustata che fosse, in assoluta indipendenza da ogni gioco politico o valutazione di circostanza. La sua autonomia era, agli occhi dei colleghi più giovani, un feudo che oggi sarebbe impensabile rigenerare nei corridoi dall'aria viziata dell'odierna industria dell'informazione. Insomma, dicevano malevoli, un retaggio del passato.
Era persona dai modi ricercati, mai banale nel vestire, amante dei grandi alberghi quando era in trasferta, amabile nella conversazione e molto ospitale con i suoi ospiti d'oltralpe quando rientrava nella sua bella casa. D'altronde il tenore di vita gli consentiva di ricevere regolarmente e di vantarsi del panorama marino che si godeva dalla stanza degli ospiti. Amato dagli amici, temuto dai nemici (tanti). Sì, era temuto. Aveva un modo assai elegante di stroncare uno spettacolo d'opera, sorvolando, omettendo, salvo poi in chiusura lanciare una freccia mortale come il coperchio di un sarcofago. Era seguito da un club di lettori eletti, che si compiacevano – prima ancora che della sua scrittura personalissima – della sua vista ai raggi X e del suo orecchio, affilato come un rasoio e preciso come l'orologio atomico dell'Istituto Galileo Ferraris. La natura gli aveva donato un orecchio assoluto. E in realtà era proprio l'esecuzione musicale che lui valutava in primis, infatti quando andava alla Scala o al San Carlo, facendosi accompagnare da donne eleganti e misteriose, per quasi tutta la durata dello spettacolo di regola stava a occhi chiusi, canticchiando la partitura che di regola sapeva a memoria. Quasi che per un'oscura forza telepatica fosse lui il direttore d'orchestra. (I vicini infastiditi probabilmente si auguravano che il grande lampadario sospeso sulle teste del pubblico si decidesse finalmente a precipitare, procurando una strage agognata e selettiva.)
Paolo *** non era indifferente al potere che era stato capace di edificare con la propria firma. Anzi, lo amava e lo coltivava con tanti piccoli vezzi, che qualcuno in effetti giudicava al limite della correttezza. Per esempio, nell'intervallo fra gli atti, si recava nel camerino a conferire con il direttore d'orchestra, cosa non difficile per lui amico di quasi tutte le grandi bacchette. E a caldo commentava, chiosava, suggeriva, e in più d'una occasione (non sapremo mai se non accorgendosene oppure con intenzione) si spingeva fino a dare consigli, anche molto pratici.
Finché un giorno. Finché un giorno la comunità dei melomani, infida come poche, si ribellò e per farlo usò la comunità dei blogger. Fu un contagio con progressione geometrica, la stampa ben presto riprese i rumori della rete, e Paolo *** si trovò nella poco invidiabile posizione di essere un critico criticato. Gli anonimi signor nessuno osarono accusarlo di essere un despota e di non esser neutrale rispetto all'oggetto del suo giudizio, poiché con le sue camarille, le sue segrete ed esclusive confabulazioni con i direttori d'orchestra lui in realtà influenzava il risultato. E tutto questo non è giusto, non è fair play. Come succede nella lirica, poi, le accuse erano condite da saporiti schizzi di fango sulla sua vita privata.
Paolo *** non si abbassò a replicare. Si dimise dal giornale quando capì che il direttore del giornale era stanco di prendersi i colpi al suo posto. In breve, si ritirò. Oggi vive in campagna, e si dice che si occupi di musicoterapia per ragazzi menomati, ambito dove il suo talento pedagogico sembra essere assai più apprezzato. Paolo *** era l'ultimo dei mohicani, un innesto fra Toscanini e la Callas distillato in una penna al servizio della critica musicale. Nessuno aveva capito che la neutralità non è un valore, e che il critico perfetto è colui che non si limita a scrutare il risultato come un vetrino, ma è colui che partecipa alla gestazione della cose, che mette le mani in pasta e che dunque proprio in virtù di questa intromissione arriva a parlare con cognizione di causa degli esiti. E tutto questo è essai più etico, seppure non tecnicamente neutrale. D'altronde, come dice qualcuno, la perfezione non è di questo mondo.
(9 marzo 2007)
5. Il maestro perfetto
Valentin Nikolaevich Gherassimov non era un maestro come gli altri, non brontolava mai, non si lamentava delle riforme che di quando in quando squassavano il traballante edificio dell'educazione nazionale, non piangeva miseria per lo stipendio angusto, non invidiava gli oligarchi che si erano arricchiti alla velocità della luce e di cui poteva essere il nonno, non rimpiangeva il comunismo ma soprattutto non si arrabbiava mai, dico mai, con i suoi allievi. La sua coscienza era quieta, la sua vita scorreva tranquilla e maestosa come lo Enisej, che fra l'altro era il fiume su cui si affacciava il villaggio di poche anime in cui si trovava la scuola, una chiesa di legno ammuffito sconsacrata in cui tutti i giorni affluivano i ragazzi dai paesi dell'interno a bordo di un asmatico scuola-bus. (Già che c'era, l'autista faceva salire a pagamento anche gli operai che andavano a lavorare alle concerie sulla riva occidentale, chissà se questo dettaglio è importante).
Valentin Gherassimov, che non ebbe mai una famiglia sua, si alzava tutte le mattine alle cinque, si guardava allo specchio la barba bianca senza età e poi “andava nella foresta” per trovare l'ispirazione. Diceva che andava a cercare l'ispirazione per i suoi ragazzi aprendo i pori del corpo alle forze del sole, degli alberi, dell'acqua e dell'aria. Anche gli animali che ogni tanto incontrava gli davano ispirazione. Poi tornava nel villaggio, faceva colazione e affrontava la dura giornata di scuola. Un giorno incontrò anche un immenso orso, ebbe paura, ma poi si fece forza cantando e lo superò, oh quanto amava raccontare questa storia ai suoi ragazzi. Non seguiva quasi mai i libri di testo dello Stato, non ne aveva bisogno.
Ma non era per questo che si era fatto la fama di un eccentrico. Il primo settembre, la festa del primo giorno di scuola in cui i mazzi di fiori si confondono da lontano con i fiocchi nei capelli delle bambine, ogni anno, da quando era stato comandato dal provveditorato, celebrava un rito di sua invenzione che lui chiamava ‘la matita spezzata'. Prendeva una matita di quelle che servono per cerchiare gli errori con una punta rossa da una parte e una blu dall'altra, e davanti ai suoi ragazzi la spezzava con una forza fuori dal comune. Facendolo, pronunciava questa formula ‘Io sono il maestro e l'allievo, tu sei il maestro e l'allievo, i voti non esistono, non esistono primi della classe e non esistono ultimi della classe, esiste solo il nostro grande, audace collettivo.' Se la matita non si spezzava al primo tentativo, cosa rara, non era buon segno, e il maestro si rabbuiava per qualche minuto.
I ragazzi delle prime, che ancora non lo conoscevano, rimanevano un po' meravigliati, ma passava in fretta. Nel corso dell'anno le lezioni si svolgevano in modo tradizionale, con compiti a casa, interrogazioni orali a tradimento e compiti in classe. Solo che, quando per esempio il maestro distribuiva i compiti corretti con gli errori segnati, chiedeva ai ragazzi di darsi il voto da soli. E quando chiamava qualcuno alla lavagna, chiedeva alla classe di esprimere un voto (si procedeva di solito per votazioni). E dopo ogni lezione, chiedeva ai ragazzi di esprimere un voto sull'operato del maestro. Infatti c'erano due registri, quello ufficiale dei ragazzi, e quello personale del maestro, in cui annotava i voti ricevuti. Il risultato di queste stranezze merita un commento: tutti i ragazzi delle sue classi erano più maturi, e in media più preparati. Nella vita molti di loro poterono soddisfare le proprie ambizioni e quasi tutti ebbero una vita familiare soddisfacente. Valentin amava ripetere: “Nella vita non esistono asini, allora perché devono essercene nella scuola?”
Erano venuti anche da Mosca per osservare questo metodo eterodosso, poiché un delatore si trova sempre quando serve. Ma non avevano potuto fare nulla, e anzi avevano ripreso il treno molto turbati. Durante uno dei suoi ultimi cicli di insegnamento, Valentin ebbe come allievo Pjotr Malinskij, il brillante dirigente d'impresa diventato Ministro dell'Istruzione e poi, come sapete, il premier della Russia. Un giorno Malinskij, circa due anni dopo l'insediamento nella capitale, decise di fare un viaggio nel profondo della Russia per omaggiare il suo eccentrico maestro. La cosa fu naturalmente seguita dai media, e ci fu una grande cerimonia nella scuola, il Preside non riuscì a parlare dall'emozione. Il premier disse più o meno così: “Valentin Nikolaevich, con lei abbiamo appreso che insegnare non vuol dire emettere giudizi, e che imparare non vuol dire riparare cattivi voti. Insegnare vuol dire incoraggiare e far vedere come funziona la vita, vuol dire che ciascuno trova la propria strada nel confronto con il compagno di banco. Imparare vuol dire aiutare e farsi aiutare. Se oggi il nostro paese ha imboccato per sempre il cammino di una vera democrazia, è anche merito suo, Valentin Nikolaevich.” Malinskij abbracciò il suo vecchio maestro di scuola senza nascondere la propria commozione. Invece Valentin restò come sempre serafico, e non si lasciò andare nemmeno al grande banchetto che seguì nel municipio di Verkhnyj, su cui circolano leggende di anno in anno più fantasiose, poiché lui stava bene solo insieme ai suoi ragazzi.
Gli furono intitolate anche un'università e due riforme scolastiche, anche se nessuno seppe applicare i suoi strani metodi. Perché di maestri perfetti ne nascono uno ogni mille anni.
(26 marzo 2007)
6. Il pubblicitario perfetto
La pubblicità è un'arte non tanto sottile che serve a persuadere le persone della bontà di un prodotto. E che mira a far sentire in colpa chi non lo acquista. È un po' come il gioco delle tre carte nei bassifondi delle città: pensi sempre di fare la cosa giusta, e invece fai sempre la cosa sbagliata: un miracolo che si ripete da tempo immemorabile. Il pubblicitario applica la sua inventiva allo stesso cono mentale a senso unico. Immancabilmente positivo. Porta la mente delle persone in mondi lontani e variopinti, fatti di paesaggi verdi e vaporosi, donne affascinanti e lisce come il vetro, manager autorevoli e probi, politici onesti e disinteressati, ragazzini senza brufoli che palleggiano come Pelè, casalinghe con i capelli perfetti a ogni ora del giorno, donne con il ciclo mestruale che danzano con il tutù meglio che nei giorni normali, pensionati diffidenti che fanno la figura degli sciocchi… Lo fa con mestiere, talora con grazia, e sempre con un'impagabile disinvoltura morale.
Ma Tarcisio Turbigo, pubblicitario maturo e sicuro di sé e del proprio conto in banca, si era stancato della routine e del paradosso. All'ennesimo conflitto nella sala riunioni con il grande tavolo di palissandro tirato a specchio, la vista su San Vittore e il soffice kilim sotto le scarpe, di fronte al musino dell'ennesima ragazzina arrogante di buona famiglia con le ballerine, i calzoni blu stretti alle caviglie, la camicetta con i bottoni di madreperla, fresca di una laurea in comunicazione che solo una civiltà di fine millennio può classificare come titolo di studio, autoelettasi tutrice di una fluida quanto misteriosa identità di marca, Tarcisio decise di far calare una lastra tombale di dieci quintali sul proprio passato professionale.
Detto fatto. Ci mise non più di una mattina a mandare via gli stagisti, sciogliere la società, disdire il contratto d'affitto, licenziare la signora dell'amministrazione, prendere congedo dai clienti stimati con un biglietto personale e scaricare i clienti primitivi e volgari con un sms grondante un umorismo definitivo (del genere ‘La ringrazio per tutto il tempo che mi ha fatto perdere e il tentativo quasi sempre andato a buon fine di corrodere l'intelligenza dell'umanità…'). Il che fatto, Tarcisio si avviò con un gran sorriso alla trattoria, ordinò una fiorentina per due che si mangiò da solo con un appetito per dieci, e infine si bevve il fernet, immedesimandosi con quell'aquila che volteggia sopra tutto da così tanti anni nei cieli italiani per vendere meglio codesto digestivo dal retrogusto un po' farmaceutico. Una coppia di salutisti lo osservava dal tavolo vicino con una certa perplessità per tanta vitale ma esagerata voracità (lo strano cliente calvo e ben sviluppato di pettorali aveva pronunciato con un tono di voce alta quasi al limite il canonico ‘Mi raccomando al sangue!”).
Al pomeriggio scrisse a un suo amico che lavorava nell'editoria con la proposta di un libro singolare: una raccolta di epitaffi degli italiani illustri scritti da loro medesimi, s'intende da quelli ancora in vita. L'idea piacque, gli italiani illustri aderirono di buona lena, e il libro fu un discreto successo, chissà per quale imperscrutabile combinazione di voyeurismo, narcisismo e ironia scacciadiavoli.
Un giorno squillò il telefono, era un imprenditore di Lecco che lo invitava a pranzo. Aveva il volto di Klaus Kinski, una camicia bianca di seta con ampi sbuffi ai polsi, e calzoni di velluto nero. Produceva bare per tutto il mondo, ma era anche nel business dei funerali e dei monumenti per i cimiteri. La proposta fu questa: scrivere su commissione epitaffi per i defunti di grandi famiglie, non importa se grandi per il denaro o il lignaggio. Disse che il suo intuito non falliva mai, e visto che non tutti potevano ambire ad essere sepolti nel famedio del Monumentale di Milano, un epitaffio ben scritto poteva essere un buon viatico per chi lasciava una posizione mondana per andare non si sa bene dove (non doveva però costare meno di diecimila euro, d'altronde uno spot pubblicitario per sempre non poteva essere svilito con una quotazione inferiore).
Tarcisio nicchiava. Allora l'inquietante imprenditore parlò più o meno con queste parole: “Francamente non capisco la sua titubanza. Per una vita intera lei ha dato voce ai prodotti, che sono un derivato dell'ingegno dell'uomo. Io le sto proponendo di fare un salto di livello, anzi, direi il salto definitivo: scrivere la pubblicità per il prodotto più nobile, più irriducibile, più complesso e controverso che il mercato abbia mai conosciuto: l'uomo stesso. Non si rende conto che le sto dando la possibilità di diventare il pubblicitario perfetto?”
La sera stessa Tarcisio firmò il contratto.
(10 giugno 2007)
7. Lo scrittore perfetto
Già da bambino aveva le idee chiare sulla scrittura. Alle elementari aveva vinto un premio dell'Arcivescovado con un tema sulla pace, la cerimonia era stata notevole e il vescovo in persona aveva dato una carezza sul capo del futuro scrittore (aveva tormentato la madre la sera della vigilia preoccupatissimo che una volta sul palco il vescovo lo smascherasse come bambino non battezzato, quindi infiltrato). Alle medie, la sorella di un compagno di scuola (fra fratelli e sorelle erano in sette, scusate la divagazione, oggi sono rare le famiglie numerose) gli chiese di pubblicare uno stralcio di un suo tema sulla solitudine (o era una poesia, forse finiva con un verso più o meno così: ‘Mi sento come un vagabondo morto che cammina nella nebbia.') sul quotidiano della sua città, dal titolo ironico (o profetico, scusate l'eccesso di parentesi) – infatti poi chiuse – La Notte.
Le idee chiare erano che non voleva diventare uno scrittore nell'accezione comune del termine. In altri termini, voleva avere tutti i vantaggi (che si riducevano poi all'idea di scrivere il grande romanzo e di aver schierate in prima fila il giorno della presentazione tutte le sue ex amanti e fidanzate – o future, a seconda dell'orizzonte temporale) senza pagare pegno. Infatti non capiva come si potesse scrivere un testo impersonale. Alberto era un grande scrittore di lettere, di messaggi, di telegrammi, di biglietti di ringraziamento, di dediche di libri e di fiori, e poi di lettere elettroniche, e anche di post it. Non concepiva un testo in cui l'autore non potesse visualizzare il volto del destinatario. Già i 25 lettori partoriti dalla civetteria dello Scrittore Nazionale gli sembravano un'enormità: provate voi a richiamare dal disco rigido della vostra memoria venticinque volti simultaneamente e poi indirizzare loro un testo omogeneo e interessante per tutti loro, nessuno escluso. No, meglio scrivere a uno a uno. Se proprio uno deve scrivere.
Alberto naturalmente ebbe una lunga, felice e intensa carriera amorosa, poiché le donne adorano essere corteggiate con degli scritti. Strada facendo aveva perfezionato il nocciolo essenziale dell'arte della scrittura ad personam: la scelta dei tempi. Prendiamo per esempio V***. Fu certamente fra i suoi massimi amori giovanili, non mancava di esporsi al pubblico ludibrio quando durante l'intervallo al liceo saliva al piano superiore per incontrarla (era di un anno più grande, e per questo i compagni di lei presero a stimarlo per la dedizione e il coraggio in amore). Ebbene, ci fu solo un bacio rubato fra loro, una sera di novembre, per strada, con il terrore che sbucasse il fidanzato in carica, assai più grande. Però Alberto, trascorsi sette anni (o forse sei) scrisse una lettera a mano di quarantacinque pagine in cui dichiarava finalmente l'immensità irreversibile del suo amore, ora che era smaltito e non più praticabile.
Alberto era dunque lo scrittore perfetto. Pur ambizioso, e vanitoso, e non insensibile al giudizio del pubblico, era totalmente indifferente al plauso di un pubblico indifferenziato. In migliaia di anni di storia della letteratura non si era mai vista una forma di snobismo così assoluta, e al tempo stesso un rispetto del pubblico così sincero e profondo. In realtà disprezzava gli scrittori che si costruivano un manichino mentale – come lepri meccaniche per far correre i levrieri – e lo chiamavano Musa o Laura o quant'altro. Era come quei dittatori paranoici che sostenevano di poter capire da soli se i loro collaboratori li tradissero o no, basandosi su una semplice occhiata (è così che Stalin fu ingannato da Beria, si dice, perché la particolarità degli uomini è che si sbagliano anche quando pensano di essere nel giusto).
Quando Alberto non amava, Alberto non scriveva, la scrittura perdeva senso ai suoi occhi. In altre parole, la forza della sua scrittura era nella sua necessità. Era un bullone da avvitare per gioco nella filettatura dell'amore. Questo spiega almeno due cose della sua opera. Il fatto che scrivesse a singhiozzo – non si può essere sempre innamorati, e il fatto che non sia rimasta una traccia pubblicata o almeno archiviata ed organizzata delle sue fatiche letterarie.
Ciò non impedì ad Alberto di aver pensato con ostinazione e non senza lucidità, nel corso del proprio cammino su questa terra, di essere uno scrittore perfetto. Forse non l'unico, ma certamente in linea teorica fra i pochi meritevoli di entrare nel pantheon (o di essere pubblicati per i tipi della Bibliothèque de la Pléiade).
(29 dicembre 2007)
8. L'editore perfetto
L'editore, si sa, è un broker. Compra e vende features. È il business più rischioso uscito dal cilindro del capitalismo, con un tasso di mortalità pari al 75% delle imprese. Per non parlare della mortalità degli autori, che qualcuno chiama ‘morti che camminano', affettuosamente s'intende. Provate a entrare in una banca e chiedere un prestito per aprire un bar con cameriere dipinte in volto e tette nude, che servono ai tavoli su snikers con ruote telecomandate; o una società di contractor a Baghdad specializzata in negoziazione multietnica per liberare gli ostaggi in caso di rapimento di personale ONG; o un fondo immobiliare che rastrella denaro fresco e investe nelle costruzione di una struttura alberghiera di cemento alta 13 piani a Stresa, ecofriendly però (carta igienica solo a due veli, gli asciugamani vengono cambiati non più di una volta alla settimana anche se cambiano i clienti, e dopo le 23 si spegne la luce). Nessun problema. Provate, con lo stesso funzionario, a parlare di editoria, delle opere complete di Nabokov, di publishing on-demand, tablet e audiolibri, di industria culturale e lancio di giovani (insomma, fra i 37 e i 53 anni) talenti italiani. Prima reazione: sguardo leggermente fuori asse, come se guardasse un punto lontano sopra il vostro orecchio sinistro. Seconda reazione: comincia a grattarsi, prima timidamente la nuca, gli avambracci, le cosce, e poi dopo aver preso coraggio più spudoratamente dietro la schiena (fin dove arriva con le sue bracciotte abbronzate) e qualcuno anche sotto la cintura. Come se ci fosse una pulce impazzita. “Ne parlerò con il direttore.” Fine delle trasmissioni. Vai con la sigla.
Maria Rosa vede il paesaggio lavorativo intorno a sé cambiare ogni giorno. Tutte le cose che aveva imparato da giovane – la rettitudine, il fiuto, il vedere le cose nell'insieme, l'ostinazione, un'appena manifesta conflittualità con i collaboratori ma a fin di bene, le amicizie intellettuali di una vita, l'eterna schermaglia con l'ipertrofico amor proprio di chi si firma in calce a un testo che non chiede nulla di più e nulla di meno che agganciare venticinque lettori – ebbene tutto questo armamentario otto-novecentesco è da buttare a mare. I fiori, il garbo, certe frasi ellittiche, le letterine brevi e qualche volta sulfuree, la consapevolezza di fare il mestiere più bello del mondo ed essere pure pagati. Tutto ciò si sta dissolvendo come un inchiostro simpatico al contrario, come le scritte di un fax sepolto dagli anni '80 in un raccoglitore ad anelli. Lentamente. Crudelmente. E con ogni probabilità irreversibilmente.
Che fare? Gli unici libri che tirano sono i “televisivi”: comici, politici , calciatori e giornaliste ai fornelli. Che fare? I grandi gruppi controllano la distribuzione, le case indipendenti spariscono, i critici sono asserviti agli uffici stampa, nessuno graffia più, i premi sono noiosi, i romanzi sono noiosi, le piccole librerie sono roba da commedia newyorchese e lasciano il posto ai Village e alle fiumane di consumatori-piranha. Il venerdì alle 17 arrivano proposte in asta con base di partenza 100,000 dollari, 4 pagine e mezzo scritte da un esordiente che l'anno precedente ha frequentato per dieci giorni (non l'ha neppure terminato, e le cose più importanti, si sa, si dicono alla fine) un campo estivo di due settimane di scrittura creativa nello Utah, risposta entro lunedì alle nove. Prendere o lasciare, tanto sbagli comunque.
Che fare? Con che faccia continuare a fare questo lavoro. E poi c'è la regola del 23, famoso tram milanese. Se lo aspetti, non arriva mai, Appena t'incammini, arriva. Se non compri, diventa un bestseller. Se lo compri, strapagandolo, diventa magicamente un flop. Attenzione, partecipare a un'asta spendendo soldi degli altri non è facile, provateci voi. Che fare? Che fare? Che fare?
Maria Rosa, un bel giorno, volta pagina. Dopo una settimana alle terme di Vals, che rigenerebbero anche un astronauta dimenticato nella stazione orbitante per due anni, decide di giocare a modo suo. Si licenzia. Compra un mac usato e lo appoggia in salotto. Nel giro di una settimana scrive un romanzo decente sulla prima metà della sua vita (non è mica difficile, le vita sono quasi sempre romanzate). Poi si inventa il nome dell'autore, il nome della casa editrice, il nome del romanzo (tutte cose in cui è brava), va in un copy center e ne stampa due copie in word, una per l'archivio e una per il mercato, prezzo di copertina 1 euro secco (bisogna creare mercato). Con la liquidazione si compra la licenza di un taxi, che una volta erano gialli e adesso sono bianchi, così alla sera l'occhio del tassista non è stanco.
Nel giro di due anni, il suo catalogo è salito a quattordici titoli, tutti scritti da lei. Le tirature da uno sono salite a cinque. La distribuzione? Basta appoggiare il libretto sul sedile, e prima o poi qualcuno lo compra. Ufficio stampa? Se il passeggero chiede, lei risponde, in fondo è l'autore il promotore naturale. Se il passeggero è simpatico, gli fa pure l'autografo. Qualche volta sono germogliati anche interessanti incontri sessuali al motel parlando di letteratura (tutto ciò è molto commedia newyorchese). Zero tasse, zero banche, zero stress, zero giornalisti, zero avvocati tronfi e distratti, zero capricci, zero trasmissioni di libri intasate, zero catering, zero traduzioni (è letteratura a chilometro zero e non va all'estero), zero quattrocento mail al giorno, zero di zero di zero. Zero assoluto. Solo piacere puro di fare il libro senza seccatori intorno. La sua vita è migliorata. I suoi vecchi colleghi, purtroppo, continuano a lavorare in maniera tradizionale, a danno della cistifellea, di altri organi interni e della noosfera tutta.
Ecco, l'editore perfetto: l'editore che non deve chiedere mai. Buon viaggio, Maria Rosa, e brava per il tempismo e l'innato eroismo del tuo gesto. Ricordati che il tuo è “il più bel lavoro del mondo”.
(24 agosto 2010)
9. L'amante perfetto
Lucio aveva quella dote supersonica che è facile ritrovare in tutti i grandi amatori e conquistatori di donne: si piaceva. Non era particolarmente forte, o alto, o intelligente, o bello, o dotato, o possente eroticamente, o elegante, o ricco. Ma il coagulo e la distribuzione dei pesi di tutte queste qualità generavano una formula che gli stava bene, inconfondibile. E questa formula, questo piacersi, proiettavano sulla parete interna del suo essere l'ombra di una mucca che non si stanca di pascersi all'infinito nel pascolo del sé. In altre parole, era un generatore di mondi, dentro i quali si divertiva a condurre le bencapitate vittime. Avrete già capito che le armi segrete delle sue campagne militari annuali erano l'attitudine romantica e in fondo un gran rispetto delle creature con cui si intratteneva. Non era affatto un vampiro, e tutte le sue ‘vittime' gli erano poi amiche e riconoscenti, felici di essere state coltivate con tanta immaginazione, dedizione e trasporto.
Lucio era un vincente, non era mai successo che una donna gli avesse resistito. Di riffa o di raffa, sapeva come espugnare il fortino. Aveva un modo tutto suo, che partiva dal nome. Infatti, se doveva far colpo su una ragazza, pensava di essere Lazo (sarà anche un nome ungherese, ma ricorda cowboy e vitelli). Se doveva far colpo con le proprie doti fisiche in un letto, pensava di essere Luccio, intensificando la c. Se doveva rivolgere la parola a una dama per la prima volta, pensava di essere Lama (non quello tibetano, ma quella d'acciaio). Se doveva incantare con la poesia, pensava di essere Liquore. Insomma, la fantasia dei nomi non gli difettava.
Succede però anche a quelli che si piacciono di entrare in tratti di stanca dell'esistenza, quando viene meno il desiderio di fare e di sedurre gli altri. Lucio cadde in una sospensione del desiderio, smise di occuparsi di donne e si mise a leggere (anche questo, in fondo, gli piaceva, c'è un tempo per ogni cosa). Lesse dieci libri, cento libri, mille libri, e ancora mille. Finché un giorno non si imbatté in una notizia per lui rivoluzionaria. Secondo uno storico dell'erotismo cinese, nato in Europa ma vissuto trent'anni in Oriente, nella tradizione nobile l'amante uomo termina l'atto sessuale un istante prima dell'orgasmo. E in questa potatura dei sensi si anniderebbe la perfezione.
Lucio rimase molto colpito da questa notizia, e cominciò gradualmente a mutare le proprie abitudini sessuali in questa direzione. Alcune amanti si inquietavano per la rottura della reciprocità, altre sorvolavano. Lucio non se ne curava. La cosa andò avanti per diciannove mesi.
La primavera si avvicinava, e Lucio incontrò V***. L'incontro fu intenso ma strano. Non fu difficile sedurla, ma pur avendo subito ceduto alle lusinghe della carne, V*** non dava segni di innamoramento. Lucio era frustrato. Aveva provato a immaginarsi come Livido, Lupanare, Licenzioso, Lacché, Lineare, Luculliano... a nulla era servito. V*** era disponibile, ma sempre fino a un certo punto. Non era quella resa incondizionata a cui lo aveva abituato il suo vittorioso destino. Che fosse una sottile vendetta per il suo astensionismo fisiologico?
Una notte che dormivano insieme, fece un sogno-sogno, ossia quel tipo di sogno che ha il potere di influenzare la vita da svegli. Sognò che nuotava sotto un mare disseminato di creature sconosciute e gentili che si movevano piano, anemoni meduse e pesci-luna, e che poi sulla spiaggia sotto il sole, una ragazza gentile lo aveva baciato o accarezzato, e lui era venuto copiosamente. Dal suo membro, però, era uscito un seme di colore rosa invece che bianco. E questo seme non si fermava mai. Divenne un fiume, e dove passava, sulle rocce vulcaniche o nella steppa, nascevano dei fiori e delle piante, come dopo un temporale liberatorio, i fiori si dischiudevano, i germogli esplodevano. Il fiume divenne una marea rosa universale…
Si svegliò comprensibilmente turbato ma decise di non parlarne con V***, che dormiva ancora quietamente al suo fianco.
Dopo il caffè, lei guardò dalla finestra e disse:
– Guarda Lucio, tutto viale Caldara è in fiore. Non ho mai visto un rosa così intenso.
Quella notte Lucio e V*** consumarono un'unione travolgente, che culminò in un orgasmo vulcanico di terribile potenza per entrambi. Si era compiuto il destino preparato dai codici genici dei rispettivi organismi e da anni di apprendistato parallelo. Il destino di una vita si era compiuto. Non c'era stato bisogno di parole per capire entrambi che era stato fatto loro il dono di assaporare l'orgasmo assoluto. Nessuno dei due aveva meriti preponderanti. Però Lucio sapeva che lui aveva un merito in più, piccolo se volete, ma ce l'aveva. Era stato lui a trovare V***. E si convinse una volta per tutte di essere l'amante perfetto, quello cioè che insegue, trova e riconosce il materiale umano adeguato alle proprie ambizioni.
(22 agosto 2010)
10. Il muratore perfetto
Si dice che Andrea Palladio fosse diventato così bravo architetto perché quando ancora non era Palladio ma solo di Pietro, avesse lavorato per oltre dieci anni come scalpellino e muratore. Fra il pensare le cose e il farle poi con le mani c'è la stessa distanza che passa fra lo spirito e la carne, la filosofia e il senso della realtà. Ma ci sono anche tanti legami… Un muratore è un individuo di intelligenza superiore. E ci sono così tanti manovali in cantiere che pur lavorando anni a fianco di un muratore, non riescono (o non vogliono) imparare l'arte.
Muratore era sola una delle tante attività che erano toccate in dote a Rocco su precise istruzioni del destino: agricoltore, allevatore, emigrato, imprenditore nel ramo delle pulizie industriali, gran ballerino di liscio, comunista, affabulatore… Non alto di statura, piantato al suolo con radici invisibili ma non per questo più sradicabili, di poche parole ma intense, e soprattutto di parola, Rocco aveva imparato l'arte della cazzuola e dei muri dritti a occhio. Gli bastava un'occhiata per valutare le condizioni di un tetto, un muro, una casa; aveva come gli occhiali ai raggi X della Settimana enigmistica per vedere dietro l'intonaco e capire se il materiale fosse marcio o meno, e quanto costasse ripristinarlo. Quando giravi con lui in attesa del preventivo, era come girare con il proprietario di una piantagione di ananas in qualche dominio coloniale – sembrava che fosse in grado di comandare alle molecole del cemento, del mattone, della malta e della pietra. Sappiamo bene che non funziona così, è solo la grande illusione di chi è maestro in quello che fa, ma vi assicuro che da questa verità la sua autorevolezza non usciva minimamente scalfita.
Rocco leggeva di tutto, sapeva tutto, e tediava gli amici con lunghe conferenze su tutto: la storia di Milano ai tempi di Ludovico il Moro, le vicende dietro ai palazzi importanti, la politica di Stalin, la poesia… Se lo avessero invitato a un quiz di Mike Buongiorno per diventare milionario, non ci sarebbe andato perché sarebbe stato troppo facile, e senza gusto.
I casi della vita (che, in bocca a un barese o un molisano dalla pronuncia stretta può suonare anche come i cazzi della vita) non gli hanno voluto troppo bene, sebbene fosse stato buono con il prossimo, e all'epoca della sua florida impresa di pulizie avesse dato da lavorare a studenti brasiliani e iraniani, precorrendo quel curioso asse politico che intercorre oggi fra i presidenti Lula e Ahmadinejad. Rocco parla poco ma un giorno aveva sibilato fra i denti che sua moglie, dopo la separazione, gli buttò via tutti i libri (non posso usare l'imperfetto perché l'azione fu subitanea).
Fu un trauma enorme. Rocco non parlò più per mesi con nessuno, si chiuse a riccio (altro che fottuta eleganza del riccio) e gli venne una rabbia da Armageddon. Allorò si specializzò nelle demolizioni. Demoliva balconi, bagni, tetti e pavimenti, e lo faceva con un gusto tremendo. Per demolire a mano un balcone ci vuole un giorno. Il suo miglior amico era la mazza. Eppure, le persone intelligenti non riescono a rimanere arrabbiate troppo a lungo, così Rocco si inventò il business dei materiali di recupero: recuperava vecchie tegole e piastrelle di cotto originali, vecchie lastre di marmo e lavandini, perché nel frattempo aveva scoperto che c'era una domanda per questi materiali (in Svizzera, per esempio, le ferrovie reimmettono sul mercato le vecchie traversine dei treni, e anche in Trentino c'è un commercio di vecchie travi del '700, che bello sentire le venature, sfiorare le rughe con i polpastrelli e sapere che ciò che tocchi ha una memoria, un sapore…).
Quella parentesi di rabbia durò un anno, mese più mese meno. Eppure Rocco sapeva che era in quel periodo che il suo operato poteva essere propriamente definito quello di un muratore perfetto, e in un'Italia infettata a ogni chilometro da villette di geometri con infissi di alluminio (nell'inferno di Woody Allen ormai non c'è più posto per tutti gli inventori di questi telai), l'unica cosa sana che in coscienza un muratore-artista può fare è rimuovere e cancellare. Ripristinare. Al Palladio non ritorneremo più, certo, ma insomma.
Acuendo l'udito, a ogni colpo di mazza, il grido aggressivo e informe del metallo che amputa il cemento poteva essere interpretato, almeno in taluni casi e da persone sensibili, con un suono secco:
– Lessismore.
(Qualcuno tuttavia giura che non è vero, e che il suono è Nevermore.)
(21 agosto 2010)
11. L'amico perfetto
Timur era un levriere russo dal bel manto fulvo, con una spruzzata di latte e una pelliccia particolarmente folta sotto il collo. Slanciato, aveva un portamento elegante, distaccato, come si addice a un rappresentante della sua razza canina, selezionata nel Settecento per divertire gli zar (ma attenzione, lungi dal borzoj essere una dama di compagnia compiacente e untuosa, quello semmai è il destino del levriere afgano, assai più stolto e vacuamente simpatico: egli è un cacciatore, che nel linguaggio dei cani vuol dire guerriero).
Timur fu acquistato da mia madre da un ufficiale dell'Armata Rossa che fuori Mosca aveva impiantato un allevamento di levrieri russi. Per l'esattezza, l'unico serio in epoca comunista. La Rivoluzione russa dichiarò guerra ai borzoj (figuriamoci, il cane degli zar). Dopo il genocidio, ci fu una piccola diaspora per mano di qualche anima pia, prima in Polonia e da qui a Hollywood, dove per qualche tempo i borzoj hanno completato con il loro muso affusolato, le zampe anteriori incrociate come se fossero cosce femminili da svelare maliziosamente e quegli occhi leggermente smarriti e fintamente ingenui che possiamo ribattezzare ‘caffelatte', ossia l'aggettivo che nel mio vocabolario privato definisce la voce di chi per ragioni di lavoro o esistenziali si sveglia molto tardi e risponde al telefono alle prime richieste del mondo con voce roca, distante e qualche volta anche molto sexy, hanno completato dicevo l'arredo e il look delle star del cinema.
Timur aveva un pedigree ottimo. Era effettivamente una bellissima creatura dal punto di vista tecnico, sia in confronto ai suoi colleghi di razza, sia in comparazione con gli altri essere canini. Quando faceva il suo ingresso ai giardini, al guinzaglio o senza, aveva quel modo pacato ma fermo di scandagliare il paesaggio vivente con due occhi che dicevano: “Tanto il più bello sono io, non provateci nemmeno.” E infatti nessuno ci ha mai provato, era il più bello e basta. Aveva un profondo senso delle distanze sociali: se ai giardini si avvicinava un clochard, cominciava ad abbaiargli contro. Per chi lo conoscesse poi, si dischiudevano i vasti orizzonti della kalokagathia degli antichi Greci: il suo aspetto fisico era un motore positivo che sul piano interiore lo spingeva quasi meccanicamente verso i sentimenti della perfezione morale e della nobiltà. Era buono almeno quanto bello, se non oltre, generoso, senza paura, cavaliere verso tutte le creature di sesso femminile, accurato nei movimenti, distinto nel parlare con cani e uomini, paziente, assertivo. La sua aristocrazia gli veniva da un temperamento disinteressato e dall'esercizio delle sue facoltà venatorie e belliche, come si conviene ai rappresentanti della sua classe sociale, almeno in prospettiva storica. Questa circostanza ha creato qualche problema alla mia famiglia, sotto forma di cadaveri di polli e galline fatti secchi con nonchalance, anche una gatta-madre randagia che ahimé aveva appena partorito e che lui uccise senza pietà ai giardini della Guastalla, e anche di qualche epico combattimento con cani di grossa taglia gratuitamente aggressivi nei suoi confronti.
Timur aveva un senso innato della giustizia. Non l'ho mai visto attaccare per primo, ma nemmeno l'ho mai visto indietreggiare di fronte a un altro cane, anche grande il doppio, e vi posso giurare che non ha mai perso un combattimento. Tutti coloro che l'hanno sfidato hanno fatto la fine degli Austro-ungarici: i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza... D'altronde il borzoj è addestrato per la caccia al lupo. E poi è molto intelligente: nei circhi russi usano bastardini e borzoj non perché abbiano fatto un contratto con la lettera b (in russo bastardini si dice in un altro modo), ma perché effettivamente i borzoj riescono a usare a fondo la materia grigia contenuta nella loro affusolata scatola cranica.
Timur aveva un temperamento lirico-romantico. Nei giorni di luna piena aveva gli occhi umidi, e quando sentiva le campane quasi sempre ululava, esprimendo così l'affinità con la dimensione spirituale della vita. Non di sola pappa si vive.
Timur era molto protettivo con la sua sposa, Roxolana, di sei mesi più giovane e di provenienza oscura (veniva dalla Romania e sul suo pedigree gravavano forti sospetti di contraffazione, sospetti alimentati da una dentatura con paurosi vuoti fra un dente e l'altro). Timur le perdonò le origini, un vero nobile si mischia anche alle donne del popolo senza intaccare il prestigio individuale, semmai quello della casata (facile per i conformisti tirare fuori aggettivi come ‘eccentrico'…). Le fu sempre fedele, e lei, pur essendo minuta, si rivelò un'ottima fattrice, e mise al mondo due cucciolate di ben sei cuccioli ogni volta. Lui morì a sette anni perché una sera gli si girò lo stomaco. Lei visse il doppio, fatto eccezionale per un borzoj, togliendo il disturbo un mese prima che nascesse mio figlio, suppongo per non turbare tale lieto evento con i suoi problemi di salute. Che tatto! È la dimostrazione che a stare vicino ai signori si diventa signori, se c'è predisposizione (chi l'avrebbe mai detto, da giovane si rotolava in tutte le pozzanghere e tornava a casa come una pazza dopo un baccanale, e poi scappava sempre, non aveva senso della disciplina, in compenso era sempre di buon umore, mentre Timur di contro aveva dei momenti che facevano pensare a uno spleen, si completavano a vicenda e si amavano assai).
Con Timur eravamo giunti alla terza generazione di levrieri in casa, si era sufficientemente esperti delle loro psicologia e attitudini. So a cosa state pensando… che sto deformando la figura di Timur in senso antropomorfico. Balle. Non sono invenzioni, le mie. Vivendo accanto a Timur avvertivo un pungolo nel fianco verso la nobiltà dell'essere, verso un ideale di signorilità che prima del nostro incontro mi sembrava improponibile nel XX secolo, o perlomeno artificiale come possono esserlo il baciamano e il papillon. Ebbene, essere nobili vuol dire essere leggeri anche quando si è depressi, non far pesare al prossimo chi si è e da dove si viene, quanta cioccolata ci è stata sottratta da bambini, quante poche bambole si hanno avute, e via discorrendo. Vuol dire guardare le cose dall'alto, e soprattutto come se le cose fossero più in alto di quello che sono. Vuol dire imprimere alla vita un abbrivio, un'intenzione, una dignità… In buona sostanza, vuol dire non aver paura di morire, e vivere come se non si avesse nulla da perdere, essendoci un unico signore a cui rispondere: la propria reputazione (i nobili chiamano così la coscienza). Il perfetto contrario di chi subisce e si arrende, incolpando gli altri del proprio destino.
Non sempre ci riesco, lo so. Eppure, quando penso a Timur, a quelle espressioni sardoniche da diplomatico britannico caduto in disgrazia, ai suoi occhi puri e non mercantili, alla sua capacità di non invischiarsi nei compromessi e di planare sulle ali dello stile (se qualcuno lo guardava, non riusciva a fare la cacca; e quella volta che a un concorso di bellezza per levrieri, ringhiò ferocemente a un arbitro umano che si era permesso di aprirgli bruscamente le fauci con le sue manacce senza chiedergli il permesso, ci cacciarono immediatamente dal campo… che classe!), ebbene penso che non solo è stato un ottimo amico, ma che è stato l'amico perfetto. In ogni istante del nostro rapporto ha suscitato in me il desiderio di essere come lui. E non smette di ispirare questi sentimenti anche da morto, a riprova che i sentimenti profondi è difficile che muoiano davvero.
(21 agosto 2010)
Eugenio Alberti Schatz
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