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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[30/10/2009]

Meglio qui che in riunione


Piccola escursione fra libri che parlano di epitaffi, cimiteri, vita & morte, e di destini più o meno ben spesi


Se è vero che la vita non è una passeggiata (un proverbio russo dice che “Vivere una vita non è come attraversare un campo”), è pur vero che contiene molto passeggiate. Alcune di queste possono svolgersi in un cimitero, e sono piacevoli perché come nei musei e nelle chiese la morsa dell'ansia si allenta, il tempo rallenta. In questo caso gli escursionisti si chiamano tafòfili o anche grave hunters (cacciatori di lapidi). A differenza di un'escursione in un bosco o in un luna park, l'escursione al cimitero richiede l'esercizio della lettura. La perlustrazione avviene per collegamenti incrociati, memorie, citazioni, residui mnemonici che galleggiano nell'oceano della mente. Il cimitero, non sto scoprendo nulla, è un ipertesto. Poche righe sotto inizia una veloce cavalcata per segnalare alcuni libri in tema, nella speranza di ritardare anche di poco la loro immersione nel Lete e nella convinzione che, presi insieme, formino una buona cassa di risonanza agli autoepitaffi. L'ispirazione? Eccola. “Sovente guardo la mia biblioteca come alla raffigurazione casalinga di un cimitero. La grande scaffalatura a parete è un superbo colombario senza un fine riconoscibile. I nomi degli autori impressi sui dorsi sono il paradigma immaginario delle epigrafi di un cinerario. I libri ‘morti' stanno lì per anni, non cercati, dimenticati. Dietro ogni dorso in polvere cartacea, persiste il riassunto delle esistenze. Silenziose. Beato l'uomo capace di risvegliare un testo. Che equivale a resuscitare un morto”. Il passo citato è a pagina 7 del primo titolo che andiamo a censire.


Giuseppe Marcenaro, Cimiteri - Storie di rimpianti e di follie, Bruno Mondadori, 2008. È il più bel libro in circolazione sui cimiteri e sulle storie che li intersecano. In esergo ci accoglie una citazione di Georges Clemenceau: “I cimiteri sono pieni di persone insostituibili”. E di storie ad incastro. Bertolt Brecht e le sue amanti, sorvegliate a vista dalla moglie Helene. Giulio Seniga che chiede di spostare la tomba di Trockij sotto le mura del Cremlino. L'incredibile vicenda del pene di Napoleone. Gli ultimi giorni di Walther Benjamin. La storia misteriosa del cuore di Shelley, asportato dal resto del corpo un mese dopo la morte: “Il cuore ingorgato di sangue, rinchiuso in un cofanetto, fu consegnato a Mary” (un gesto degno di assurgere a emblema del Romanticismo). I sepolcri di Rasputin, Stevenson, Valery, Winckelmann, Garibaldi e garibaldini, Edgar Allan Poe. La tomba di Marx a Highgate. E la casa di Ipatiev, dove si consumò l'eccidio della famiglia imperiale dei Romanov, capitolo ricco di informazioni rare, che fa capire come le prospettive dei tempi possano deformare qualsiasi cosa, anche la morte. Da un vecchio ritaglio della stampa russa post-perestrojka, leggo il bilancio: “Dieci persone fucilate, una cameriera sgozzata, tre cani impiccati e un solo superstite: un cane che aveva deciso di non abbaiare”. Mi colpisce un dettaglio che in Marcenaro non ritrovo: i cekisti misero in moto un motore Ford per coprire il rumore degli spari, quasi un'involontaria complicità dell'Occidente (tutto si svolse in non più di due minuti).


Boris Akunin, Grigorij Ckhartishvili, Kladbiscenskie istorii 1999-2004, KoLibri, Mosca 2004. Contiene sei ritratti di cimiteri famosi: il Cimitero vecchio di Donskoe di Mosca, Highgate di Londra, Père Lachaise di Parigi, il Cimitero degli stranieri di Yokohama, il Greenwood Cemetery di New York e il cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. A ciascuno di loro è dedicato un doppio sguardo: un saggio corredato di fotografie dell'autore, e un racconto d'invenzione. Boris Akunin è noto per essere il padre di Erast Petrovic Fandorin, un investigatore dell'Ottocento le cui avventure hanno fatto vendere milioni di copie (in Italia gli editori sono Frassinelli e Sperling & Kupfer). Akunin è lo pseudonimo di un fine intellettuale di origine georgiana, Grigorij Ckhartishvili, filologo, traduttore dal giapponese, già direttore della prestigiosa rivista Inostrannaja Literatura. In questo libro il saggista e lo scrittore si incontrano sullo stesso terreno, è un vero e proprio crash psicanalitico. L'impaginazione sottolinea il dualismo: carattere bastone per il saggio, carattere aggraziato per il racconto. Libro godibile, colto, avvincente, con dorso in tela. E, in più d'un'occasione, umoristico. Come quando Tchkhartichvili confessa che il suo epitaffio preferito al cimitero di Donskoe è quello della contessa Schakhovskaja, scomparsa “a causa dell'operazione del dottor Snegirev”. O come quando sostiene che fino al 1954 le cose per il comunismo non andavano tanto male, ma da quando nel 1954 si decise di spostare Marx in una zona più prestigiosa del cimitero Highgate per riunirlo ad altri membri della famiglia, iniziarono i guai: la denuncia dello stalinismo, i fatti d'Ungheria, la fine della grande amicizia con la Repubblica Popolare Cinese… “Non bisognava farlo. In nessun caso bisogna turbare il riposo dei morti.”


Luca Cardinalini, Giuseppe Cardoni, STTL - La terra ti sia lieve, Derive Approdi 2006. Ispirato nei testi (Cardinalini) e talentoso nelle immagini (Cardoni), il libro narra gli ultimi giorni e il momento della morte di grandi personaggi della vita pubblica italiana, da Moro a Berlinguer, da Craxi a Spadolini, da Tortora a Baldoni, da Gassman a Rino Gaetano a Totò… A fianco del testo, l'immagine del sepolcro o di suoi dettagli, con atmosfere e tagli sempre diversi. Scopriamo che Pannella contestò fuori dalla chiesa il funerale di Spadolini. Che ai funerali di Totò a Napoli ci furono 100.000 persone. Che Gassman era molto loquace sulla morte: “La morte mi fa schifo, è inutile. È una gran fregatura. È un errore di calcolo del Padreterno che doveva concederci almeno 250 anni”. E sempre lui: “Invece di un dopo, mi accontenterei di due vite sulla terra: una per capire, una per agire”. E ancora lui: “Non mi dispiacerebbe essere imbalsamato. Ci penso seriamente. Mi immagino come un gufo in salotto, con un nastro dentro che mi fa salutare gl ospiti”. Sulla tomba di Sciascia sono iscritte le parole: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. (Secondo Gian Lupo Osti, che cita a memoria, On se souviendra bien de cette jolie planète! è la conclusione di Villiers de l'Isle Adam e Mallarmé di una lunga e sconsolata passeggiata in una nottata piovosa per le strade di Parigi. Secondo Matteo Collura, la frase di Villiers arriva a Sciascia da Leo Longanesi, vedi L'isola senza ponte, Longanesi 2007.)


Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo (traduzione e cura di Franco Rella), Feltrinelli 1991. Nel febbraio del 1923, a Muzot (Svizzera), in un “innominato turbine” che dura meno di tre settimane, Rilke scrive I sonetti a Orfeo e conclude le Elegie duinesi, la sua opera più complessa. I Sonetti riportano questa dedica: “Scritto come Monumento funebre per Wera Ouckama Knoop”. Wera, nata nel 1900 e figlia dello scrittore Gerhard Ouckama Knoop, ballerina, muore a diciannove anni di leucemia. Forse Rilke intuisce di doverla seguire su questo ripido crinale. L'anno successivo accuserà i sintomi della leucemia che lo porterà alla morte nel 1926. Sulla sua lapide alcuni versi ricordano la rosa, il fiore di Orfeo. Il passo dei Sonetti da cui sono tratti è questo: “Non ergete lapidi. Ma ogni anno / fate che per lui fiorisca la rosa. / Questo è Orfeo. La sua metamorfosi / in questo o in quello. Vano affaticarci / intorno ad altri nomi. Ogni volta sempre / è Orfeo quando c' è canto. Viene e va. / Non è già molto se al calice della rosa / di due giorni talvolta sopravvive”.


Thomas Bernhard, In Hora Mortis, SE 2002. In gioventù, lo scrittore austriaco Thomas Bernhard aveva composto molte poesie. Chissà se sapeva che avrebbe scritto romanzi e soprattutto teatro. In Hora Mortis è del 1958. L'autore è attorniato dai lutti familiari e colpito dalle prime forme della malattia che lo porteranno alla morte molti anni dopo. E il poema è un lamento selvaggio. Lamento perché in 21 pagine, senza tenere conto dei pronomi della seconda persona singolare con la maiuscola, Dio e Signore compaiono 73 volte. Selvaggio perché dettato da un'ira senza freni, rabbiosa, giovanile. Inizia così: “Selvaggio cresce il fiore della mia ira / e tutti vedono la spina / che nel cielo affonda...” E poche pagine prima del finale: “Voglio pregare sulla pietra ardente / e contare le stelle che nuotano / nel mio sangue...” Il poema è in quattro parti, ha una cadenza musicale che trascina. Provate a leggerlo senza temerne la crudezza. Vi è tanta bellezza poetica da renderlo catartico. D'altronde, per prepararsi a morire, l'aerobica tutte le mattine non è sufficiente. (I critici attribuiscono un legame diretto fra questo testo e l'Ars moriendi dell'Umanesimo tedesco, ossia quella disciplina che tratta del morire bene.)


Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 2005. Testo americano celebre, letto, tradotto e amato in tutto il mondo. È la trascrizione in poesia delle voci di un finto cimitero, dato che al momento di essere scritta (1914) i titolari della lapidi erano vivi e vegeti, e si arrabbiarono non poco con lo scrittore. In Italia la prima edizione risale al 1943. Fu voluta da Cesare Pavese. Pare che Fernanda Pivano tradusse le 224 poesie dallo stile aspro e diretto senza incarico, e che solo dopo Pavese decise di pubblicarle. Pare poi che Pavese fosse innamorato perso di lei, e che anche a causa del suo rifiuto “divorziò dalla vita” (per usare la bella espressione di Vittorio Strada) nel 1950. Nel 1971 Fabrizio De André pubblicò l'album Non al denaro, non all'amore né al cielo, che conteneva nove poesie dell'antologia, e anche un'intervista post mortem della Pivano a Lee Masters. Il mondo si divide in due: chi ha letto prima il libro e chi ha ascoltato prima il disco. Le canzoni di De André sono abbastanza immortali, in ogni caso adeguate alla bellezza dell'originale, sia per i testi che per la melodia (ci lavorò anche Nicola Piovani). Il refrain “Dormono, dormono sulla collina” si insedia nei timpani e ci resta a lungo. La versione di De André, più che una trasposizione, è un'evoluzione dell'originale, lo completa e amplifica. Prendiamo la storia del giudice Selah Lively. Nell'originale è concisa, in De AndreÅL diventa grottesca, quasi barocca: “La maldicenza insiste, / batte la lingua sul tamburo / fino a dire che un nano / è una carogna di sicuro / perché ha il cuore troppo, / troppo vicino al buco del culo”.


A. Mario Redaelli, Pia Todorovic, Ticinesi e compatrioti italiani nei cimiteri di San Pietroburgo - Biografie, ELR Edizioni Le Ricerche (Lugano) 1999. È una pubblicazione di studio, molto seria e curata, frutto di tre viaggi a San Pietroburgo, di un incontro con Venjamin Gorbunov, un giovane storico che per la paga fa l'operaio ma va tutti i giorni al cimitero come un guardiano e si “mette a disposizione”, e con il fotografo Anatolij Clerc. Il libro riporta belle tavole fotografiche in bianco e nero delle tombe, con accanto la biografia dell'interessato in italiano e in tedesco. Nel 1939 il cimitero cattolico di Vyborgskoe viene soppresso dal Comitato di partito del quartiere, il recinto in ferro fuso, le lapidi ridotte a ghiaia per le costruzioni stradali, la chiesa cimiteriale trasformata in fabbrica. Solo quattro tombe importanti vengono trasferite al monastero di Aleksandr Nevskij, fra cui quella del generale Konstantin Karlovic Dansas, compagno di liceo di Puskin a Zarskoe Selo, suo padrino al duello mortale con d'Anth ès, e quello della cantante Angelina Bosio. Il suo è un monumento funebre importante, un mezzo busto piantato su una colonna, con una figura di donna piangente che appoggia il capo sulla spalla di Angelina. La lunga e noiosa epigrafe è in francese. Ma c' è una scritta in italiano sulla colonna che sfiora la comicità: ALLA SUBLIME CANTANTE / LA MUSICA INCONSOLABILE.


Nigel Rees, I Told You I Was Sick - A Grave Book of Curious Epitaphs, Weidenfeld & Nicholson (Londra) 2005. 150 epitaffi curiosi, divertenti, sagaci. Ognuno si sceglie i suoi top five, impossibile farne a meno. Nel caso nostro, la palma è andata a una lapide di età vittoriana in un cimitero per animali: “Born a dog. Died a gentleman” (Nato cane. Morto signore.): chi scrive è stato preso dalla tentazione di adottarlo per sé, si vedrà se ne sarà all'altezza. La ricchezza di fonti fa intuire che in Inghilterra la collezione di lapidi è un genere frequentato da tempo. Alcuni di questi epitaffi sono diventati star del web. A differenza della nostra antologia, in cui abbiamo applicato una severa livella (vedi la recensione alle poesie di Totò più avanti) e assegnato campiture e pesi grafici uguali per tutti, qui ogni epitaffio è una storia a sé, chi grande chi piccolo, un festival di caratteri e di layout di pagina ogni volta differenti. Alcuni passaggi sono interessanti. Infatti l'autore dedica degli approfondimenti piuttosto curati a singoli epitaffi: apprezzabili quelli per Eva Peron, Silvia Plath, Eleanor Rigby (ricordate la signora nella canzone dei Beatles che raccoglie i chicchi di riso in chiesa dopo il matrimonio?) e al poeta John Clare. L'epitaffio più perfido? Quello di un signore sepolto al cimitero inglese dell'Isola di San Michele a Venezia. “In loving memory of Frank Stanier of Staffordshire, who left us in peace, feb 2nd. 1910” (In affettuoso ricordo di Frank Stanier dello Staffordshire, che ci ha lasciato in pace, 2 febbraio 1910).


Elsa Di Gati (a cura di), Le penultime parole famose - Quando non ci sarò più, dite di me…, Tullio Pironti 2008. Un bel giorno apprendiamo dai mezzi di stampa, mentre eravamo impegnati nelle nostre faticose operazioni di invito, che è uscito un libro come il nostro: epitaffi di italiani celebri in prima persona. Sconcerto. Come è possibile? Tanto lavoro in fumo? E il nostro libro “bruciato”? Guardando da vicino, per fortuna, vediamo che non è proprio la stessa cosa. Noi abbiamo inteso l'epitaffio nel senso corrente, come iscrizione funebre. Elsa Di Gati ha lasciato liberi i suoi autori di interpretarlo o nel senso lapideo, o anche nell'altro senso, quello dei necrologi e dei discorsi con un taglio encomiastico. Altro punto di differenza: accanto ai famosi, abbiamo inserito persone non visibili sui media, non televisive. (L'oltretomba tende a generare paesaggi più democratici.) Ai lettori il giudizio sui rispettivi esiti, possiamo aggiungere che in due casi gli autori sono i medesimi. Dopo lo smarrimento, abbiamo deciso di continuare, grazie anche all'incoraggiamento dell'editore. Prendendo in prestito da Demostene la conclusione dell'epitaffio per i caduti di Cheronea, useremo la formula di rito: “Non dirò molte altre cose; questo abbiamo cercato, di dire il vero. Voi che vi dolete, e che avete compiuto tutto ciò che era dovuto secondo la legge, andate”.


Eugenio Baroncelli, Libro di candele - 267 vite in due o tre pose, Sellerio 2008. È il più bel libro di vite brevi in circolazione, non fatevelo sfuggire. L'autore, ridotto in casa da una malattia, ha usato un anno e mezzo della sua vita per vivere la vita degli altri. Di Seneca, Leopardi, Wagner e Montale ma anche di eccentrici sconosciuti, come Bartolomeu Lourenco de Gusmao, il prete volante, o di poeti poco conosciuti, come Alejandra Pizarnik… Come nel libro che avete in mano, ha mischiato persone semplici e vati, vicini di casa e premi Nobel. Di ogni vita va a cercare lo stoppino, quella molla che ne ha determinato la traiettoria. In un armadio a cui Baroncelli attinge sono stipati “libri e almanacchi, ritratti e foto, ritagli di atlante o di giornale, appunti e minute”. Sentiamo lo scricchiolio delle ante ogni volta che si avvicina per recuperare una pratica. Ma non vi è sistema, è solo interpretazione. Baroncelli prende 267 vite e le trasforma in piccoli miti portatili. Da un punto di vista concettuale, è operazione di un'eleganza fuori dal comune. Sul piano della scrittura lo stile è sorprendentemente terso, suscita incanto. Questo libro diventa una droga, e come dispiace quando le candele finiscono. Le vite sono come i geroglifici, vanno decifrate. Prendete Renato Cesarini (p. 92), “attaccante dandy”. Partito dall'Italia sul piroscafo a nove anni, in Argentina fu calzolaio, acrobata, pugile, radiocronista e chitarrista e anche funebrero, cio è becchino. Nel 1930 torna in Italia per giocare nella Juventus. A Torino aprì un locale di tango e vestì i camerieri da gauchos. Ogni giorno cambiava camicia tre volte e fumava tre pacchetti di sigarette. “Il 13 dicembre 1931, guadagnata la maglia azzurra, segnò al novantesimo il gol con cui noi battemmo gli ungheresi e lui battezzò la zona passata in proverbio.”


Daniela Palazzoli (a cura di), Ignoto a me stesso - Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges, Bompiani 1987. Questo libro, credo ormai una preda per bibliofili, ha creato qualcosa dove prima non c'era. L'idea della curatrice è di proporre ritratti fotografici di grandi scrittori e poeti dell'Ottocento e del Novecento fuori da una logica del culto della personalità, tutto il contrario (memorabile Henry James in frac e senza, memorabile il ritratto di Poe, ma è inutile fare classifiche…). Scatti che scendono nel profondo come un batiscafo, che colgono il Grande Scrittore in pose rubate, in un momento di distensione, quando l'immagine pubblica è per un istante dismessa e appoggiata sullo schienale della sedia come una giacca sgualcita. Scatti che colgono occhiate sghembe, perplesse, sincere, anche preoccupate, con pupille vitree o acquose. L'anima dell'uomo è consegnata al suo pubblico senza orpelli. A distanza di tanti anni, vedere queste fotografie fa venire ancora i brividi per la loro intensità, e anche per il coraggio dell'operazione. Mettere a nudo qualcosa, qualcuno non è mai facile. Il testo introduttivo di Sciascia è un'illuminazione a ogni riga. Parla di entelechia, “un estremo e finale riconoscersi in un ‘aldilà': ombra intravista e riconosciuta così come Dante intravede e riconosce le ombre”, cita Agostino Vaery, Goethe, Mallarmé; e infine sostiene che gli scrittori siano ancora più ignoti a se stessi perché, secondo Diderot, commedianti della vita. La macchina fotografica, essendo macchina, ha quella neutralità necessaria per scandagliare il fondo dell'animo umano senza liquefarsi.


Geminello Alvi, Vite fuori del mondo, Mondadori 2001. L'autore ha coniato una felice espressione, che ogni tanto appare sui media legata al suo nome: “dimenticare a memoria”. Sono passati molti anni ma io ricordo quando con la sua firma il “Corriere della Sera” pubblicava storie di personaggi strampalati, accomunati dal talento di sognare senza venire a patti. Fra me e me li avevo battezzati “Elzeviri Sognanti”. Nessun legame con la cronaca circostante, come una sospensione, una trasmissione radio da Saturno. Così, quando uscì il libro, invece di brontolare contro i libri fatti di articoli di giornale, corsi felice in libreria, e lessi avidamente. Ora il volume è perso ma poco male, i resti sotto il pelo dell'acqua sono ancora visibili. Geronimo, Primo Carnera, Pancho Villa, Cary Grant, Hans Christian Andersen, aviatori e attori… Mi ricordo che c'era anche la storia di Yves Klein, musicista, maestro di judo, artista e provocatore, quello del blu oltremare usato come unica nota, il Piero Manzoni francese… Il tema delle vite sognanti è profondo, perché evoca una domanda mai sopita, cui non è facile rispondere: nella vita è importante riuscire o è importante provare? I grandi inventori, i grandi innovatori corrono troppo avanti, hanno tratti del carattere scontrosi. Urtano e procurano imbarazzo. Eppure non possiamo archiviarli, senza di loro il motore girerebbe troppo piano. (A proposito di libri dimenticati a memoria, Vittorio Agnetti nel 1970 ha creato un libro svuotato, intitolato proprio così: “Libro dimenticato a memoria”.)


Ian Brunskill (a cura di), Vite straordinarie, Neri Pozza 2007. Per voyeur, anglofili e spigolatori. Il curatore dell'opera non deve aver fatto molta fatica a recuperare i testi degli obituaries dei grandi del Novecento “da Lenin a Lady Diana”: è l'editor in carica al “Times” per gli obituaries! Nella prefazione Stefano Malatesta spiega con cura la sottile differenza fra gli obituaries inglesi, una vera istituzione, e i nostri coccodrilli, ossia i testi che i giornali hanno già pronti in casa da usare in caso di morte della celebrità (basta infilare nel microonde). “Gli obituaries erano sentenze che andavano immediatamente iscritte nel grande registro della Storia, contribuendo così a formarla, ricoperte appena da una leggera imbastitura d'ironia, senza riuscire a nascondere l'intima certezza dell'autore di stare dalla parte del giusto”. Prendiamo tre nomi di persone scomparse a poca distanza di tempo fra loro (1981, 1982 e 1985) e quindi affiancate nel libro. Bob Marley: “Il reggae sopravviverà alla perdita di questo interprete unico, ma potrebbe non avere mai più un portavoce di tale eloquenza e richiamo”. Glenn Gould: “Sul palco Gould era decisamente poco ortodosso. Spesso si sedeva a gambe incrociate, e a volte dirigeva un'orchestra immaginaria con la mano libera... Aveva un solo nemico: la noia dell'accademia”. Orson Welles: “Imponente nel fisico come nell'intelletto, applicò la sua incredibile potenza creativa alla radio, al cinema, al teatro e alla televisione”.


Ermanno Cavazzoni, Vite brevi di idioti, Feltrinelli 1994. Una galleria di ritratti memorabili di persone che memorabili non sono (se poi siano esistite è lana caprina). Idioti sia inteso con affetto di quelle persone che osano ritenere di avere la verità dalla parte del manico. Qualcuno disse che in certi frangenti occorre avere il coraggio di dire che gli altri sono stupidi – anche quando si avesse il mondo intero contro. Verissimo, come negarlo? Cavazzoni parte da questo assioma. L'idiozia dei nostri eroi è la fissazione di coloro che si convincono da soli delle cose che pensano, senza confronto con il mondo esterno. Il perito aeronautico Pigozzi assembla un aereo coi pezzi della Fiat 850. Una contraddizione in termini, la 850 è nata per strisciare. Ahimé, non volerà lontano: dopo appena un chilometro a palla, si schianta contro il terrapieno sotto gli occhi degli zingari. Il pittore Cimetta traccia righe analfabetiche. C'è poi il capitolo dedicato al Lombroso. E in chiusura il dottor Maggiani, che usa la calamita contro le idee fisse morbose. Le biografie sono inframmezzate a tre capitoletti di Suicidi lavorativi (cap. 7), Suicidi con errore (cap. 14) e Falsi suicidi (cap. 21). Falso suicidio numero 1: “Un tenore, dopo una serie di stecche nel marzo del 1982, si è chiuso nel camerino e si è sparato una revolverata. Quando han sfondato la porta era vivo perché la pistola era una pistola finta di scena. Il tenore ha dichiarato che non lo sapeva”.


Michael Largo, Stecchiti e censiti - L'enciclopedia illustrata di tutti i modi in cui si passa a miglior vita, Vallardi 2008. Libro curioso, perverso e inquietante. Michael Largo, figlio di un investigatore della polizia di New York, è partito da una semplice domanda: alla fine del Settecento le cause di morte descritte nei certificati erano meno di 100, oggi risultano più di 3000. Dieci anni di ricerche, dati raccolti presso oltre 50 Agenzie governative ed evidentemente un talento fuori dall'ordinario per la statistica, le notizie bizzarre e le spigolature. Eccone un piccolo saggio. Nel 1919 a Boston uno tsunami di melassa fuoriuscita da un'autocisterna esplosa per il caldo uccide 21 persone: l'onda arrivava al terzo piano. Nel 1959 si tiene a Los Angeles l'ultimo duello americano: muoiono entrambi i contendenti (fra il 1700 e il 1959 sono morte 40.000 persone in duello). Il 96% dei condannati a morte chiede come ultimo pasto un gelato. Omicidi avvenuti dal 2001 come diretta conseguenza di talk show, giochi televisivi e partecipazione a reality show: 13. In fondo al volume il lettore trova una gradevole appendice con epitaffi. “Sotto questa pietra giace la mia signora: / Adesso si riposa e lo stesso faccio io. (Cimitero di Baltimora, 1910).” Ma forse il più bello è questo: “Harry Edsel Smith / Guardò in su nella tromba dell'ascensore per vedere / Se la cabina stesse venendo giù / E in effetti, stava venendo giù. (Albany, New York, 1914)”.


Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti, Adelphi 1988. Non l'abbiamo ancora letto, ma sarà sicuramente bellissimo come ogni suo libro. C'è un tempo per ogni cosa.


Michele Ranchetti, Poesie ultime e prime, Quodlibet 2008. Ci sono copertine che ti incidono dentro. Sospeso al centro della pagina c'è un filetto nero largo dieci centimetri e alto 2 millimetri. Che cos'è? È il parallelepipedo di Odissea nello spazio? È una leva per sollevare il mondo? È la riga dell'elettroencefalogramma piatto? Per noi è la vita in potenza (come aveva intuito bene il disegnatore Cavandoli). La linea è insaziabile e infinita. L'energia potenziale sta per esplodere in energia cinetica, basterebbe sfiorarla questa asticella. Ranchetti (1925-2007) è stato un insigne studioso di storia della chiesa e delle religioni. Pochi mesi prima della scomparsa predispone in dettaglio la pubblicazione di questo libro, il cui esergo è… vi sono più testamenti che eredi. Le prime (nella seconda parte) sono 14 poesie in latino. Le ultime sono 54 poesie in italiano. Insieme, compongono un diario di avvicinamento alla morte, in alcuni casi duro, senza remissioni. In altri, alto e misterioso. Il timore della morte è ineludibile, e quando ci si sente implicati, martellante. L'unico antidoto è una potente carica di mistero. Che qui il lettore riscontra ad abudantiam. Pag. 18: Il tempo dell'istante / senza seguito d'anni ma di istanti / a non comporre il giorno né l'ora / solo un presente senz'ombra / di presente. Pag. 20: Stella e delirio, tragedia del presente / libero dai tuoi sguardi. Pag. 32: Vivo in levare, tu in battere.


Isabella Balena, Ci resta il nome, Mazzotta 2004. Libro di immagini su come le persone si comportano di fronte alla memoria della morte e ai monumenti ai caduti. C'è umanità e rispetto negli scatti di questa fotografa emiliana, e la coscienza respira perché la guerra di oggi attraverso le immagini dei media alla fine stanca. Balena gira l'Italia e documenta lapidi di caduti di entrambe le parti ma anche piccoli cimiteri di soldati alleati polacchi, canadesi, scozzesi, neozelandesi… che hanno combattuto nel nostro Paese senza probabilmente avere le idee chiarissime ma nella speranza che portasse bene alle persone del posto. Sono immagini terse e al tempo stesso calde, in linea con quella nuova retorica della morte di cui auspichiamo la nascita (vedi alla voce Epitaffio, pag. 271). Dall'introduzione di Mario Deaglio: “Anni fa vidi una strana lapide a Fort Stanley, il ridotto di Hong Kong bombardato dai giapponesi il 7 dicembre 1941, poche ore dopo l'attacco a Pearl Harbor. Segnalava la morte di uno dei quattromila dimenticati difensori della colonia inglese, il soldato semplice J.C. Dunne, 28 anni, membro del Royal Army Medical Corps. C'era scritto ‘Ho reso qualche servizio allo Stato. E loro lo sanno. Otello, Atto quinto, Scena seconda'. Nessuno saprà mai se sia stato lo stesso Dunne a dettare l'epigrafe”.


Giorgio Dell'Arti, Massimo Parrini, Catalogo dei viventi - 7247 italiani notevoli, Marsilio 2008. Per questi signori ho una stima altissima e mi sento affratellato. Catalogare un materiale vivente, italiano poi, è come svuotare l'oceano con un colino del tè. Eppure loro non si scoraggiano, ogni nuova uscita è attesa come un Rapporto Censis che indica cosa bisogna fare per diventare notevoli nel nostro Paese. Dal comunicato stampa della casa editrice: “Quasi duemila pagine di nomi e cognomi… 79.5% presenza maschile... Le città italiane in cui vivono più ‘famosi'? Roma e a pari merito, sorpresa, Trieste”. Però lo fanno con garbo e acume e massima libertà, e accanto a personalità di indubbio peso (Silvio Berlusconi batte tutti, da solo pesa 18 colonne e mezzo) accolgono anche personaggi border line. È questo il gioco vero, scrutare il Purgatorio, fare incontri di vite straordinarie fra piccoli trafiletti. Poter dire “Quello lo conosco anch'io!”. E subito ci si sente più importanti, e si ringrazia gli autori della compilazione per essere stati più morbidi di Bouvard e Pecuchet.


Totò (principe Antonio de Curtis), 'A livella e Poesie d'amore, Newton Compton 2002. Nelle poesie napoletane di Totò aleggia una malinconia tutta mediterranea, una nostalgia di qualcosa che non esiste e non può esistere: la giustizia. Ci sono scale e scalini, alterigia e sottomissione. Anche nella celebre poesia 'A livella. Il poeta si diverte a osservare da lontano l'alterco fra un blasonato e scorbutico marchese e Gennaro Esposito, netturbino, prima gentile e poi sempre più irritato. La livella è la morte, la lama del tagliaerba che rasa il manto della vita. Totò mette alla berlina chi non sa accettare il cambio di scena: se ieri eri qualcuno, oggi le stesse regole, le stesse gerarchie potrebbero non aderire alla nuova realtà. Anzi, eliminiamo il condizionale: non aderiscono proprio. Per citare un nostro autore, Pietro Grassano, le performance future non dipendono da quelle passate. L'aldilà di Totò è il luogo del riscatto sociale, della rivincita, dello sberleffo ai potenti. È un sogno, un giardino consolatorio. Emigrare nell'aldilà – per Gennaro Esposito – è una promozione, mentre per il marchese un declassamento. C'è chi scende, e c'è chi sale, secondo imperscrutabili geometrie. Finale della poesia, in cui a ben leggere si racchiude la filosofa di una vita: “Perciò, stamme a ssenti... nun fa' 'o restivo, / suppuorteme vicino – che te 'mporta? / Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: / nuje simmo serie... appartenimmo à morte!”.


Carlo Vita Fedeli, Piccola antologia di Grê – Cani a gatti, voci di là, CV Edizioni 2005 (per informazioni popi.vita@ tin.it). È il primo e unico libro sui cimiteri di animali in Italia. Quando si vuole impallinare un libro, si dice “un libretto delizioso”. Noi non lo diremo. Diremo invece che è una riproposizione interessante, in scala adeguata, dell'Antologia di Spoon River con personaggi canini e felini. L'esergo riporta un verso del poeta Mark Strand: A dog has names for himself that / a man can't know… Le storie sono tante, Marx il gatto comunista, Ercole il Gigante, e Roy (la sua lapide? “Sei stato grande”), Lord (scrive Fedeli, Tutta la mia vita fu posticcia / per colpa del mio nome pomposo). Libri del genere sono catalizzatori di aneddoti. Questa non è un'eccezione. Ecco che cosa ci ha raccontato Fedeli. A commento di una tomba unificata per Diana e Piccina, Fedeli scrisse Ed io Piccina, schiacciata sotto / grazie a padroni parsimoniosi. La proprietaria si fece viva al telefono, e un po' piccata reclamò che lei proprio non se lo meritava quell'epiteto di taccagneria. Il suo gesto al contrario nasceva per preoccupazione: voleva che le creature si sentissero meno sole, di là. In chiusura, vale la pena di citare un passo poetico dello stesso Fedeli che in realtà apre il volume: Godiamo il privilegio effimero / d'un ricordo: la cieca fortuna / a infiniti altri l'ha negato.


Edward Gorey, L'ospite sgradito e altri 12 racconti d'umorismo nero, Bur Rizzoli 1994. “Autore di culto” è quell'espressione che amano seminare gli editor sui risvolti dei libri nella speranza di vendere di più. In realtà questa definizione dice poco sullo scrittore, ma qualcosa sui suoi lettori. Il successo di un autore di culto è carsico, e quindi sorprendente nelle sue subitanee riemersioni. Così, se un amatore si trova di fronte a un altro amatore, celato nei panni di una persona insospettabile (una collega frivola fino a quel giorno sottostimata, un capo burbero e fissato col trekking), subito si scioglie ed è felice e si riconosce parte di una famiglia un po' snob. Bene, Gorey è un autore di culto. Gli adoratori, ormai tanti credo, sono intossicati dalle sue illustrazioni maniacali perlopiù in bianco e nero che raccontano di morte, veleni, scannamenti, crudeltà gratuite e omicidi, con la levità con cui le signore prendono il tè osservando i mariti giocare a cricket. Io sono uno di questi (adoratori, non giocatori). Ho amato gli arti artificiali di Sua Eccellenza, le donne che volano dalle torri come personaggi di Chagall, il tragico alfabeto de I piccoli di Gashlycrumb, le atmosfere alla Escher de L'ala ovest, ma soprattutto le arcane avventure di un eroe come l'Ospite ambiguo (The doubtful guest), che si intrufola in una famiglia vittoriana e si pianta come una zecca nelle loro giornate tutte uguali: con la sua sciarpona, il suo naso misterioso, le sue azioni misteriose, e quelle scarpette da ginnastica tanto carine. Le ho amate tanto da arrivare al punto di intitolare il contenitore letterario di inediti che sto portando avanti da qualche anno www.ospiteambiguo.it.


Aarto Paasilinna, Piccoli suicidi tra amici, Iperborea 2006. Se volete ridere sulla morte, questo è l'indirizzo giusto. Paasilinna, ex guardaboschi, ex giornalista ed ex poeta, suona l'organo della risata con abilità kaurismakiana. Grazie agli scherzi crudeli della sorte, il suicidio diventa impresa collettiva, un pretesto per fare una scampagnata sul torpedone in giro per l'Europa, risse fra suicidi e skinhead, adunate sediziose, amori e tradimenti come in un reality… La morte progettata però ha sempre qualche inghippo, qualche diversione, qualche ingranaggio sporco a causa di un bruscolo dispettoso. Come il colpo del secolo per una banda di malavitosi sfortunati e invecchiati male. Arrivati al dunque – per vivere o per morire – la domanda è sempre la stessa: ha senso? Incipit: “Il più formidabile nemico dei finlandesi è la malinconia, l'introversione, una sconfinata apatia. Un senso di gravezza aleggia su questo popolo sfortunato, tenendolo da migliaia di anni sotto il suo giogo, tingendone lo spirito di cupa seriosità. Il peso dell'afflizione è tale da indurre parecchi finlandesi a vedere nella morte l'unico sollievo. La malinconia è un avversario più spietato dell'Unione Sovietica”.


Sergej Tchakhotine, Sotto le macerie di Messina - Racconto di un sopravvissuto al terremoto del 1908, Intilla 2008. Una bella storia, segnalataci dal messinese illustre Alvaro Occhipinti. Sergej Tchakhotine è uno scienziato russo nato nel 1883 e scomparso nel 1973. La sua vita è un romanzo. Nasce a Istanbul, studia Medicina a Mosca, viene esiliato in Germania, dove lavora nel laboratorio di Roengten (quello dei raggi X). Nel 1907 è a Messina con la famiglia per fare ricerche al Laboratorio di biologia marina. Rimane sepolto dalle macerie ma riesce a liberarsi, anche la moglie e il figlio si salvano. Nel 1912 ritorna in Russia dove studia con Pavlov (quello dei cani). Partecipa alla Rivoluzione di febbraio, poi di nuovo esule a Zagabria, Parigi, Genova e Berlino. Durante l'occupazione tedesca in Francia finisce in un campo di concentramento. Il suo libro più famoso è Lo stupro delle masse del 1952 sulle tecniche pavloviane applicate alla propaganda politica. Sotto le macerie di Messina racconta con gli occhi di un giovane mite e brillante che cosa si prova ad essere sepolti vivi (dopo Edgar Allan Poe e prima di Quentin Tarantino). Finale del libro: “È come se l'anima si schiudesse, anch'essa si copre di rose e violette, i miei occhi è come se vedessero per la prima volta la luce. In tutto il mio essere qualcosa ribolle senza sosta, risuona, vibra… Il sole, la gente… l'universo... Ah com'è bello, com'è meraviglioso vivere!”.

Eugenio Alberti Schatz


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