home page


È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[22/5/1997]

Evelina Schatz

Del viaggio della scrittura delle cose
sette spezzoni di critica capillare


[uno] la terra promessa
Vi è qualcosa di biblico e immane nella decisione di abbandonare la patria odorosa della carta e delle fascine di fogli, per andare in cerca di una terra promessa oltre l'orizzonte. È un intero popolo quello che si muove: diecimila iurte, donne e bambini, tutti gli anziani, il grande popolo della scrittura una mattina ha caricato tutti i suoi caratteri, le sue reminiscenze, le sue citazioni, le sue forme tipografiche per mettersi in viaggio. Il rumore era fortissimo e non si sentiva niente, ma la gioia arrivava fino al cielo. Meglio morire in cammino piuttosto che aspettare la propria morte giorno dopo giorno, nella riserva del governo. Ogni giorno gli attacchi dell'establishment digitale, dei dischi e delle fibbre ottiche, della tivù spazzatura e delle radio libere si facevano più opprimenti, senza più alcuna vergogna. Intere professioni scomparivano, linotipisti e correttori, fotocompositori e redattori. Il grande impero del refuso e del macintosh domestico avanzava inesorabile. Quando i caratteri andavano in città a fare la spesa, venivano additati e derisi, e ricevevano anche sputi. Non vi era scelta, nessuno voleva più aspettare l'olocausto, i tempi di Platone che fissava per memoria i dialoghi del suo maestro erano ormai tramontati per sempre e mai sarebbero potuti tornare. E anche gli scrittori, da quando si erano riuniti in due grandi Confederazioni nemiche che miravano ciascuna all'eliminazione dell'altra (DOS contro Mac, Nord contro Sud) erano passati al nemico, e comunque a forza di faide erano rimaste solo piccole comunità montane. Per usare una stilografica bisognava avere il porto d'armi. I decreti di riciclo grafico avevano imposto la scannerizzazione di tutte le biblioteche su supporto cd. La dignità di un popolo intero soffriva. Meglio morire in cammino, anche se questa lunga colonna disordinata, la cui scia di polvere si levava lontano nell'aria, era un po' goffa nel muoversi sui materiali scoscesi, fra precipizi e curve pericolanti, sopra superfici di ogni valore colore e consistenza. Diceva Eduardo De Filippo: “Chi cerca lo stile, trova la morte. Chi cerca la vita, trova lo stile.”

Si narra che al passaggio del popolo della scrittura, alcune specie botaniche fossero rinate ad un nuovo senso. E agitassero le loro foglie per salutare il popolo coraggioso e fiero, che andava incontro alla solitudine dell'esilio. La memoria della placida fragranza della carta e del suo fruscio sarebbe rimasta nei canti epici di questo popolo.

@

Nei re-melt e nei coaguli di materia poetica di Evelina Schatz si ode un'eco lieve di questi canti.


[due] l'impulso calligrafico
In realtà la resistenza dell'arte calligrafica inizia molto prima della crisi attuale dei segni, e addirittura conosce un revival nell'Inghilterra dei pre-raffaeliti. Nel 1921 alcuni allievi di Edward Johnson fondano l'Associazione degli Amanuensi e dei Miniatori (Society of Scribes and Illuminators). I calligrafi inglesi ripropongono alla modernità un'arte che attraversa molti secoli di storia d'Occidente, dai risultati sintetici della scrittura pubblica romana attraverso i compromessi della scrittura carolingia, sino allo spettacolare decollo della scrittura codificata nel primo Rinascimento dalle cancellerie del Papato. Anche Greenaway (I racconti del cuscino), infatti, è inglese. Oggi pare di osservare, stranamente in concomitanza con i colpi di scure del broken english della Rete, un risveglio dell'arte della calligrafia. E anche in Italia fioriscono convegni, corsi, mostre di artisti-calligrafi.

La calligrafia occidentale non conosce però la magnificenza delle tradizioni mistiche islamiche, alveo in cui la calligrafia si espresse nelle forme più alte e in cui tutte le influenze del grande melting-pot islamico furono accolte e rielaborate. (Dopo l'invasione dei mongoli nel 1258, l'arte dei miniaturisti persiani fu condizionata non poco dalla pittura cinese e furono codificate le caratteristiche forme delle nuvole che aleggiano intorno ai calligrammi sospesi nell'aria.) Commentando i superbi tracciati del calligrafo iracheno H. Massoudy, attivo a Parigi, Atyah Issa Khassaf scrive: “La multifunzionalità delle forme della scrittura islamica non mira alla sola funzione comunicativa, ma cerca di trovare rapporti con altri valori come ad esempio quelli ritmici, vocali, gestuali e visivi. È una scrittura tridimensionale e non unilineare che esplode nel piano e nello spazio con multimedialità di mezzi di espressione.” La tecnica del respiro come base di una action painting totale viene codificata in tutte le tradizioni orientali, e trova la sua canonizzazione nell'arte dei maestri giapponesi, i primi grandi psicoanalisti della scrittura che hanno messo il gesto del pennello in comunicazione con i misteri più bui dell'anima di chi lo impugna e lo scrolla sulla carta. Ma soprattutto, dice ancora Khassaf: “La calligrafia non è soltanto la fissazione di un testo, anzi è una composizione astratta che esprime una concezione e attualizzazione della visione del mondo di chi scrive.” Un esempio famoso: i sette articoli della fede coranica scritti a forma di nave, in un manoscritto del XII secolo. Lo scafo, da destra a sinistra dice: “Io credo in”. A poppa si legge: “Dio”. In ciascun remo: “e”. E nei rematori: “Nel suo angelo, nei suoi libri, nei suoi profeti, nell'ultimo giorno, nella predestinazione, nel bene e nel male, nella resurrezione dopo la morte”. Sulla vela: “Non vi è altro Dio all'infuori di Dio, e Maometto è il profeta.” La forza simbolica di comunicazione di questa nave è l'equivalente di un propulsore nucleare, pochi pubblicitari potrebbero eguagliarla. Ci piace immaginare questa nave, mai esistita dal vero, come un rompighiaccio fantasma di fabbricazione sovietica che vaga fra i ghiacci sporchi del senso comune, e di cui si favoleggia nelle osterie dei porti del mondo.

@

Nelle opere di Evelina Schatz il tratto calligrafico sgorga ingenuo, e zampilla con naturalezza sulle superfici discontinue. Con grazia crescente e appassionata.


[tre] ll doppio limite
Esistono scrittori fatti per piacere alle masse, ai critici e ai produttori di Hollywood. Per esempio Dostojevskij. Esistono scrittori che piacciono invece agli altri scrittori. (Nabokov, autore di sofisticazione estrema e ricercatezza matematica, grande cacciatore di farfalle mentali e vive, è uno di questi, se si sorvola sulla trasposizione per lo schermo di Lolita per la cinepresa di Kubrick.) Ecco, come Nabokov è per gli scrittori, così è per gli artisti Kurt Schvitters, artista tedesco che consacra la tecnica del collage nel grande incubatore cubista. Schvitters usa bottoni, biglietti del tram, reperti del quotidiano e strato dopo strato costruisce una testimonianza fossile della vita attraverso la lente del commercio. I suoi famosi Merzbaum sono una lenta balena del tempo, un'invenzione ossessiva tipica del Novecento per documentare in tempo 1 a 1, attraverso la storia degli oggetti ingoiati, la sua ricerca nell'arte. Di Schvitters mi parlava il pittore armeno di Mosca Sergej Essaian, a Parigi, in occasione di un'importante antologica di Schvitters, parlandone come di uno dei massimi maestri del Novecento, a me un po' scettico per tanto trasporto. Poi ho capito. Il lavoro dell'artista è in buona sostanza un lavoro da minatore: di dissodamento del senso partendo dal minerale bruto, seguendo vene la cui lunghezza e redditività sono del tutto imprevedibili: potrebbero interrompersi poco più avanti, come continuare per chilometri di gallerie. L'artista spacca scava suda e scalpella per far rinvenire il gioco della creazione. E poco davvero importa il mezzo: quello che conta è la lotta incessante per strappare brandelli di grazia (o di senso, che poi è la stessa cosa) dalla zolle di materia, una fatica improba e ammorbante, ma tutto sommato lineare: da una parte il torso imperlato di sudore creativo dell'artefice, dall'altra l'inerzia della materia del reale, che si oppone con il suo ottuso silenzio, una pigrizia cosmica verso qualsiasi azione che comporti il dover esprimere senso (la materia inerte è solo lontana parente di quel grande cartone animato disneyano che è la natura.) Ma cosa succede quando per rendersi il compito ancora più difficile l'artista raddoppia l'handicap di partenza e invece di usare materia senza significato o memoria sociale, usa oggetti già significanti? “Guarda mamma, vado in bicicletta anche senza mani.” È l'atto di superbia suprema, trasformare la routine di senso in un iperspazio colorato di significati recuperati e riassortiti.

In breve, il clown-funambolo piacerà soprattutto ai suoi colleghi funamboli, che non si fermano alla risata per le gag in alta quota, ma sanno apprezzare l'understatement e l'apparente distacco verso il risultato, consci della bravura professionale nel camuffare il rischio. E dicono: “Che temerario!”

@

Vi è di questo nella superbia artistica degli assemblaggi di Evelina Schatz. E così si spiega l'interesse e la solidarietà profonda che i suoi amici e colleghi artisti non le lesinano. L'operazione di recupero del senso è infatti sottile: carotaggio in profondità per pescare l'elettricità poetica che naviga allo stato libero nelle composizione molecolare dei materiali; e insieme distorsione della funzione d'uso dell'oggetto, con ironico autocompiacimento per la capacità di rimescolare i valori materiali di una scalcagnata civiltà priva di valori: in un ammiccante gioco del dottore ogni oggetto è impaziente di trasformarsi in qualcos'altro che non sia quello per cui è nato. Il topolino-souvenir di mezzo centimetro diventa gigantesco nella cupola del calice di vetro; il tubo al neon diventa anello di Saturno; la graffetta dell'ufficio diventa un alfabeto per bambini; la carta nata liscia si consacra ai posteri tutta spiegazzata; la sedia fatta per sedere diventa leggio per leggere; e di piatti interi non ne ho visti.
In quest'operazione si intravede però la “leggerezza” di cui parla Calvino nelle sue Lezioni americane, che ci allontana dalla maniacalità di Schvitters (e del suo precedessore Arcimboldo, altro grande ricercatore ossessivo della distorsione di significati preesistenti). E ci avvicina ad un ikebana di oggetti più istrionico (sarà per questo che mi vengono in mente le macchine immaginarie di Munari?).



[quattro] il rifiuto e i rifiuti
C'è un'immagine che non riesco a sopprimere sul mio schermo di fosfene quando chiudo gli occhi. È una foto pubblicata sul National Geographic e mostra una famiglia media americana fuori dal proprio cottage, con due macchine nel cortile. Di fronte a loro si stagliano alcune montagne: la montagna dei rifiuti organici; la montagna delle lattine; la montagna delle bottiglie in pet; la montagna della carta... Loro guardano all'insù (il fotografo li sta riprendendo dall'elicottero), sono un po' divertiti per la trovata del fotografo, ma anche un po' inquieti perché nessuno prima aveva mostrato loro quanta merda riesce a produrre in un anno una famiglia media americana. Questa immagine non richiede commenti. Se l'avete vista, non riuscirete a dimenticarla tanto facilmente. Chissa se i personaggi di questa fotografia avrebbero qualcosa da dirsi con quelle famiglie che vivono nelle discariche urbane a cielo aperto nelle Filippine di cui ha parlato il Corriere della Sera, e che ogni giorno ricostruiscono un'intero villaggio dotato di tutti i comfort utilizzando solo rifiuti. Già, perché i rifiuti non sono di nessuno. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che l'Assemblea delle Nazioni Unite ha promulgato nel 1948, l'articolo 17 sapete cosa dice: “Ogni individuo ha diritto ad una proprietà sua personale o in comune con gli altri.” Senza entrare in sofismi sulle forme di sperequazione che si è dato l'umano consesso, mi viene da riflettere: il rifiuto è l'unico territorio su cui nessuno accampa diritti di proprietà, è anche giuridicamente l'ultimo tratto di colon della nostra crassa cultura. I rifiuti non sono di nessuno, dentro il rifiuto non verrà mai nessuno a pignorarvi alcunché. E sarà così ancora a lungo. Al massimo vi diranno che dobbiamo imparare a produrne meno. I rifiuti sono un terreno di grande libertà mentale (e giuridica) per l'artista. Non è un caso che artisti punk e rave abbiano utilizzato la monnezza come tavolozza di colori. Dai rifiuti al rifiuto.

@

L'arte di Evelina Schatz utilizza il cascame quotidiano perché è terra di nessuno, novalis. Oggi è più vergine uno scarto che il sorriso di Monna Lisa intaccato dall'inflazione mediatica. Oggi è più vergine una stagnola accortocciata che una billetta di bronzo pronta in fonderia per prendere la forma del bozzetto di un grande maestro. Ehi, voi, dobermann delle banche e san bernardo della critica d'arte, provate a inseguirmi sul mio terreno qui fuori, in discarica... Dovete solo provarci...


[cinque] l'arte portatile
Uno dei grandi problemi dell'arte è la portatilità. Se mi sfrattano, dove porto la mia collezione di Velazquez Magnasco e Fontana? Oggi l'idra della miniaturizzazione non ha ancora volto il suo alito incendiario al mondo dell'arte. Anzi nella fotografia, nell'arte e nella scultura si assiste a un'estraniante rincorsa del grande formato (se sia per penuria di cose da dire è una domanda cattiva). Prima Christo e la land art – trenta chilometri di bosco o deserto sono una misura media. Poi Toscani-Benetton che fa arte sui fogli bianchi delle città, e a distanza di pochi anni l'hanno seguito in molti. Dettagli fotografici insulsi, ingranditi a dismisura, diventano effettivamente evocativi. Gli ultimi campioni del mignon si trovano in tabaccheria, le piccole bottigliette di liquore impolverate che nessuno compra più. Che fare? Solo i giapponesi, che sono il popolo del futuro perché da sempre fanno arte come se fosse tecnologia e anche il contrario, dimostrano ancora di amare la miniatura come concetto. Il ‘piccolo' lo porti via con te, è un tocchetto microbico di memoria, una coccola e un talismano nel mare magnum pieno di mostri del villaggio globale, non più ignoto ma non per questo meno pericoloso. L'arte nuova è, come il pensiero, portatile, e forse a tempo. Allora che fare? Alla domanda non so rispondere, ecco perché si chiama ‘critica capillare'.

@

Evelina Schatz risponde in modo originale alla questione della portatilità: ha sviluppato una vera arte interna di ascendenza orientale. (Le arti marziali nate in Cina si dividono in arti esterne, basate sulla forza muscolare, e in arti interne, basate sull'equilibrio.) Le tradizioni si portano dentro, e infatti restaurare in Oriente non significa ricostruire un'improbabile integrità primigenia, quanto piuttosto non disperdere le competenze che hanno reso possibili le costruzioni degli antenati. Evelina Schatz porta sempre in sé il suo genio creativo dell'assemblaggio – anche nell'arco della giornata – e del riassemblaggio ancora, senza posa. Chi la può fermare? Finché c'è vita, ci sono briciole con cui plasmare nuove combinazioni. È davvero una forma moderna, poiché sposta l'asse del valore in modo drammatico verso l'estremità dell'interpretare rispetto al costruire – al di là del valore materiale, ma al di qua del valore estetico. La portatilità diventa interiore. Come in un verso non recente dell'artista: “Imparare a bere il caj da una tazza vuota.”


[sei] l'esercizio della povertà
L'ansia che travolge gli artisti non è causata da galleristi cleptomani, borghesi indifferenti con le smorfie di Bunuel o Ferreri, o critici famelici e approssimativi: quanto piuttosto dalla mancanza dei soldi per i colori e i pennelli. (O per noleggiare lo studio di post-produzione digitale.) Ritornano alla mente le pagine nitide di due grandi scrittori che hanno descritto la fame umana: Knuth Hamsun (La fame) e Jack London (vi ricordate quel racconto-capolavoro, La bistecca, in cui un pugile a fine carriera e affamato perde contro un giovane antipatico perché non ha conosciuto la grazia di una bistecca. Per corto circuito, Evelina mi ricorda la giacca di bistecche di Gligorov, in mostra a Milano in queste settimane, un inno al cinismo da iperconsumo – carne-da-cannone-per-nutrirsi-e-per-vestirsi.)

Gli artisti elaborano strategie machiavelliche per farsi bastare i pochi cent in tasca e acquistare il maledetto tubetto. La setola maledetta. La cosa buffa è che – come quei russi che arrivavano in Italia all'epoca del comunismo in patria con soli 80 dollari di diaria e li spendevano tutti per comprarsi un cappello Borsalino – vogliono solo i prodotti più cari e di qualità, non accettano compromessi. Gli ultimi dandy. È proprio uno spasso vedere un artista che si contorce per i crampi della fame e dell'inedia, che non parla più con gli amici perché si vergogna, non si lava e ha freddo perché i sigilli sulle utenze sono ormai impolverati, mangia rottura di riso e fuma solo nazionali – quando entra in un negozio di articoli d'arte: sembra il buyer di una catena di negozi di moda giapponesi: con un filo di voce che esce dal mento malrasato (spesso l'alito non è freschissimo): “Faber, Caran D'Ache, Maimeri”. Gli artisti, proprio uno spasso queste strane bestie!

@

Evelina non aveva nemmeno quei pochi cent. Di povertà virtù.

@

La parola povertà e l'uso di materiali reflui non inducano in confusione. Che non di arte povera si tratta, di quella corrente ascetica cioè (la matrice è da ricercare in San Francesco) che ha scosso il pantano italiano sul finire degli anni sessanta, e che per l'eleganza formale e l'anoressia di senso è più agevole accostare all'ermetismo di Eugenio Montale sotto la cappa della censura fascista. I re-melt di Evelina Schatz al contrario scoppiano di significato e intensità, un effetto di esuberanza che i conoscitori della sua poesia non potranno non mettere in relazione diretta proprio con l'ubertà della sua vena poetica.


[sette] la città smarrita
Una città è tante cose, un insieme di insiemi intrecciati. È concentrazione di case e strade, di luci e smog, di armature di cemento armato e rotaie, di fogne e cavi elettrici. Di corruzione politica e di una mole sorprendente di storie di miseria umana, che vanno ad alimentare quel grande serbatoio a buon mercato di plot per scrittori minimalisti, i quali nemmeno si scomodano più a inventare storie (Bah!). Ma è anche un tessuto di segni, il luogo in cui la scrittura all'aperto (chiamiamo così l'insieme di quei segni linguistici che non sono chiusi nelle pagine di un libro o di un documento) trova la sua consacrazione. Entrando in una cittadina della provincia romana del Basso Impero, il viaggiatore per prima cosa notava il proliferare abnorme di messaggi scritti – pubblici e commerciali – dappertutto, su muri delle botteghe e sulle metope. D'altronde la civiltà occidentale ha inventato la scrittura monumentale. E forse solo i grandi musei d'arte delle nazioni europee nascenti sono riusciti così bene come la scrittura pubblica nel loro intento di legittimare le radici economiche del sistema. (L'Occidente ha alfabetizzato in profondità la natura umana; mi rendo conto che duemila anni di evoluzione darwiniana del tipo umano non sono molti, tuttavia mi stupisco che ancora l'animale-uomo non nasca sapendo già scrivere.)

I re-melt, che incrociano su tre assi materia scrittura e poesia, sono un'invenzione prettamente urbana. L'artista si siede sulla spiaggia metropolitana (il marciapiede) e aspetta che le onde buttino sulla battigia il superfluo, quegli oggetti della cui assenza nessuno si accorgerà mai. In un contesto rurale questo gettito fortuito probabilmente non sarebbe così ricco, mancando grandi concentrazioni di consumo. Uso il condizionale perché non saprei come classificare urbanisticamente i grandi centri commerciali che infestano le nostre campagne come grotteschi e inutili parchi a tema. Forma d'arte urbana, dunque, come i libri-oggetto di latta, stoffa e alluminio inventati dal futurismo, di cui è ben nota la forte carica anti-libresca (il libro è passatista).

È possibile anche, su scala diversa, immaginare re-melt che utilizzano i rottami che vagano nello spazio – allora l'utilità sociale dell'artista ne uscirebbe accresciuta. La forma d'arte del re-melt ha inoltre ottime prospettive di applicazione nel campo della biogenetica: che cosa sono i replicanti di Blade Runner se non geniali re-melt? E i replicanti restano indissolubilmente legati al loro brodo ancestrale: la metropoli moderna. Una metropoli qualunque (Milano per esempio) con i suoi magazzini di storia, le fabbriche dismesse e il gusto dell'invenzione casuale. Con la casualità e la violenza creative che si sprigionano da una massa critica di milioni individui lì per caso. Forse in questo istante, in qualche appartamento, qualcuno battendo a casaccio sui tasti di un computer, sta già partorendo il nuovo capolavoro di letteratura re-melt.


Eugenio Alberti Schatz


torna a Torna a Critica d’arte