[11/1/2000]
Seán Shanahan
Conversazione con quatto quadri e il loro autore, Seán Shanahan
(Le frasi virgolettate all'interno del testo sono dell'artista.)
I. Il destino di Marrano
Dove si accenna al genius loci e si spiega l'origine di una parola
Un quartetto perfetto di quattro strumenti perfetti nati per essere esibiti in uno spazio perfetto come il piccolo oratorio di Santa Maria Immacolata a San Giorgio Scarampi non ancora del tutto sconsacrato, adagiato con cura a dominare un perfetto belvedere italiano. Non è stato facile convincermi che questo lavoro, nella sua compiutezza e nella sua perfetta comprensione dello spirito del luogo, avesse bisogno di un commento esterno: non nascondo di aver provato una certa timidezza, e una vivida sensazione di inutilità della parola.
Eppure può accadere che anche la perfezione più perfetta si compiaccia di accompagnarsi a un neo. In questo caso il neo è il titolo dell'opera che dà il titolo alla mostra, Marrano, accostato a nomi meno sbilanciati come Star, Glass e Voice. Con questa ingiuria (marrano in spagnolo significa giovane porco) il popolo designava gli ebrei, i musulmani e le rispettive discendenze che si erano convertiti al cristianesimo per non morire. Un decreto del Re di Castiglia del 1380 vietava l'uso di questo termine, ma inutilmente. In alcuni di loro la conversione era sincera, nei più solo un atto di comodo che non ostacolava nel loro intimo la fedeltà alla religione degli avi. Molti marrani finirono comunque sul rogo per mano dell'Inquisizione, emigrarono oppure si fusero definitivamente con la comunità cristiana. Pochi marrani sono sopravvissuti nel Portogallo Settentrionale e nelle Baleari.
"Piccolo o grande, il quadro gestisce il muro, mangia la parete".
Tutti i quadri di Shanahan nascono misurandosi con il luogo primario: il muro sui cui stanno appesi. E sui cataloghi sono sempre fotografati con una porzione di muro, quando non con l'intero ambiente. Nulla di strano, dunque, che Shanahan si sia posto con rigore il problema di collocare il lavoro in uno spazio la cui destinazione d'uso originaria è difficile da cancellare: luogo di culto.
"È uno spazio estremamente specifico, avvolto dal vento a 360 gradi, in cui la tensione meditativa si riflette sull'architettura dello spazio."
E nemmeno è strano che abbia voluto accompagnarlo attraverso uno spazio tutt'altro che neutro con un salvacondotto nominale contro il rischio di una lettura irreversibile, un segnale di warning che ricorda:
"Il quadro non è mai quello che sembra."
Dietro alla scelta di un nome spiazzante per il quadro più grande (110 x 160 x 3 centimetri) oltre all'uso di un colore insolito nel proprio lavoro – un plasma di blu oltremare, bianco e viola cobalto che lo stesso Shanahan definisce ambiguo e destabilizzante – vi è la consapevolezza che la semplicità delle costruzioni formali procura nello spettatore e nei luoghi che le ospitano, di rovescio, un'eco complessa di percezioni sovrapponibili. Da questa complessità, che parrebbe stridere con lo spirito apollìneo applicato sotto forma di colori unici su tavole di MDF, vale allora la pena di partire per formulare qualche ipotesi su una mostra che ha tutta l'aria di rappresentare per l'artista irlandese il punto di arrivo di una lunga ricerca.
Ancora sullo spirito del luogo, che a misura del morbido paesaggio delle colline circostanti incita alla meditazione. Shanahan ha visto lo spazio vuoto e l'ha riempito con quattro opere nel modo meno casuale possibile: l'ha cioè completato con estensioni naturali dello spazio che assecondano l'aura del luogo con un passo che ha certamente a che fare con l'architettura. Mi domando come si riuscirà a smontare la mostra senza far sembrare orba l'accogliente pianta a croce quadrata dell'oratorio. La storia ci ha insegnato che certi marrani possono essere più veri e più pii di certi veri cristiani.
La sagesse a ses excés et n'a pas moins besoin de moderation que la folie.
Montaigne
II. Il Grande Colore e la Piccola Ombra
Dove si invita alla visione e si spiega l'equilibrio delle forze
Si guardino i quadri. La prima sensazione è quella di un'isola felice dove l'occhio si riposa e respira una rara sensazione di calma e purezza: lasciatelo lì per qualche tempo, non distraetelo, non toglietegli il piacere di guardare. Passato lo stupore, vi accorgerete di due cose: che i colori non sono fermi ma mossi, baluginano e pulsano come onde; il blu di Prussia di Star (80 x 90 x 3) copre un fondo nero che gli dà profondità e mistero; il bianco di Glass (33 x 40 x 3) si tinge impercettibilmente di ocra, mentre il bianco di Voice (33 x 40 x 3) si anima di tenui riflessi di blu; i quadri iniziano a parlare e forse ad agitare correnti magnetiche che irrorano la parete.
"Glass è freddo, terrestre. Voice è alto e lontanissimo. Star come l'acqua di notte."
E vi accorgerete che sono dei quadri, mentre prima sembravano delle sezioni di muro smottate geometricamente in avanti o indietro. Se vi avvicinate, il trompe-l'oeil è svelato: il lato destro è privato del segmento di cornice (superficie di MDF lasciata scoperta) e si arrotola su se stesso proiettando una piccola, sorprendente ombra (tutti i quadri sono base x altezza x 3 cm).
"Più sottile è la membrana fra fuori e dentro, più il quadro risuona."
Prendetevi ancora qualche istante, e potrete cogliere la muta lotta fra campo di colore che preme verso l'esterno e bordo che lo contiene con indomita determinazione; la tensione fra quadro che si espande e parete che rimpicciolisce; lo scarto fra superficie liscia come glassa di mercurio e leggere striature che segnano in verticale la pellicola; l'alternanza fra pieno e vuoto, chiaro e scuro, meccanismo geometrico e crescita organica... un ricchissimo reticolo di forze bipolari in equilibrio che non esplodono mai, anzi si placano, composte e soddisfatte in un ordine naturale a sé bastante e non precario. Stiamo assistendo a una rappresentazione delle forze fisiche in gioco. La loro sorgente è uno strumento di concentrazione, un acceleratore di essenza. Ha ragione il critico Mel Gooding quando parla di oggetti di contemplazione che non portano ad associazioni figurative o poetiche: portano molto più lontano, ad una condizione mentale progressiva che apre una porta su nuovi stati di coscienza.
"Il quadro diventa l'evento di stargli davanti."
La ricostruzione del loro albero genealogico è un esercizio che gli artisti non amano, poiché si ha bisogno di maestri e si ha bisogno di ucciderli. Shanahan, in un'intervista del 1998, cita i lavori di Morandi e Fontana come metri d'influenza. (In Morandi avrà visto l'atto di sospendere il tempo. In Fontana la passionaria gestualità dell'anima. In entrambi una certa rarefazione che porta all'amplificazione delle emozioni).
Shanhan pone attenzione all'economia dei mezzi, in sintonia con una parte della tradizione filosfico-estetica classica di Cina e Giappone: procede per folgorazioni. Il suo gioco è partire dal semplice, sviluppare una tempesta di complessità per poi fermare tutto di colpo e domandarti a bruciapelo: “Visto che era semplice?” In questa prospettiva, risulta difficile definire Shanahan artista della semplicità. Mi pare una definizione più convincente chiamarlo artista della comunicazione fra semplice e profondo: colui che indaga le forme della tensione e della complicità sugli assi vicino-lontano e semplice-complesso. Il tratto di mare che lo separa dai suoi maestri è ormai più lungo di quello che ha percorso in loro compagnia.
Quando tutti pensano che il bene è il bene, allora è male.
Lao-Tse
III. La visione cangiante
Dove si indaga sull'ambiguità e si pone la sua utilità
La differenza fra indeterminatezza e ambiguità è intuitiva: la prima rimanda alla genericità, al fuori fuoco, la seconda alla capacità o all'intenzione in partenza di generare un fraintendimento, una sostituzione di significato. Come mai, la lingua – un tipico esempio di evoluzione riuscita – tollera l'ambiguità del senso? Forse una lingua che abbia estirpato ogni ambiguità risulterebbe troppo ingombrante per la vita di tutti i giorni? Ad oggi non esiste una teoria che lo spieghi. Resta il fatto che la poesia e l'arte ricorrono da sempre all'ambiguità. “In poesia, dove lo scopo è spesso quello di trasmettere il più ricco e complesso insieme d'impressioni possibile, d'istituire o suggerire relazioni fra cose che la mente di solito non penserebbe di collegare, le relazioni offerte dal sistema uomo-significato, accuratamente manipolate, possono contribuire efficacemente a rendere il lettore consapevole di tale relazioni.” (Judith Aissen e Jorge Hankamer) L'ambiguità può essere descritta come una preziosa area di pluralismo, paragonabile alle zone umide: di entrambe non si conosce bene l'utilità, eppure si intuisce che la loro perdita potrebbe essere un danno.
Che cosa intende dire Shanahan quando afferma che il quadro non è mai quello che sembra? Che una percezione in sintonia con i livelli più profondi dell'opera è il risultato di un'operazione maieutica in stile socratico, e come la conoscenza, nasce quando si è consapevoli di non sapere. Le lunghe domande dei dialoghi socratici servono a sgomberare la strada dalle macerie dell'opinione comune e far germogliare l'intuizione della verità. L'ambiguità di Shanahan invita a diffidare di una visione anestetizzata da protocolli semplicistici e di organi della vista resi opachi e poco prensili da una civiltà che dice di pensare per immagini, ma che in realtà, nel momento di consacrarla, ha ucciso l'immagine. (Come è successo con l'udito: il la moderno viene tarato a un valore di vibrazioni più alto che nel '700 per evitare che sembri stonato, poiché l'udito si è assuefatto a suoni sempre più smaglianti).
Shanahan è impermeabile al conformismo della visione poiché sottrae da sotto i piedi dello spettatore ogni possibile appiglio preconfezionato. In questo invito oggettivo a guardare con occhi più profondi sta scritto, con in calce sempre e solo il suo nome, il manifesto dell'artista.
"Il quadro non è predeterminato, portato alla conclusione."
Da qui nasce la pratica del quadro come copione aperto. Da qui, la scelta dei colori come latori di messaggi sussurrati. Da qui, la bellezza come osservazione degli infiniti possibili. Da qui infine la distillazione di quel miraggio che con gentilezza ma altrettanta fermezza colpisce all'istante la vista e la fantasia. Forse Marrano vuol dire anche questo.
Dobbiamo muovere senza fine verso un'altra intensità.
T.S. Eliot
IV. Del sublime
Dove si racconta come la bellezza coglie se stessa e diventa etica
Non bisogna temere di sembrare ingenui, démodé o politically incorrect se partendo dalla capacità di un quadro di generare uno stato d'animo tanto personale quanto inconfondibile, si arriva a definire questa potenzialità come il sublime. L'estetica contemporanea ha eliminato il problema stesso del sublime formulando una non-teoria generale del valore estetico, ma per molti versi il pensiero di Kant mantiene una forte attualità. Kant, superando tanto la definizione di eccellenza estetica del Trattato del Sublime quanto le teorie degli altri pensatori della seconda metà del '700, definisce il bello come congruenza fra rappresentazione dei sensi e intelletto, e il sublime come sintesi fra intelletto e ragione. Il primo è armonia della natura, il secondo è senso di potenza e grandezza infiniti: il regno della libertà morale. Del sublime dice Kant che è uno specchio i cui contorni sono dati solo dal cielo.
L'uomo moderno, di cui ormai conosciamo la sindrome del déjà vu e la diffidenza verso le proprie emozioni, ha raggiunto un'oggettiva maturità critica. Qualcuno la chiama disincanto. Se rovesciamo i termini della questione, potrebbe trattarsi di un vantaggio: sono io a decidere che cosa è sublime per me. Suona come un paradosso (un assoluto su misura) ma non lo è. Dentro ciascuno di noi la tensione all'assoluto esiste e non è un'invenzione di artisti, preti, critici o filosofi. Il disincanto mi permette, con più disinvoltura rispetto al passato, di accogliere nella mia scorta personale di assoluto ciò che fa vibrare più forte le corde dello spirito. Il fatto che la decisione, aiutata dal gusto e dall'educazione, sia mia nulla toglie alla funzione reale di traino verso l'alto che questa classificazione implica.
Qui non si tratta di definire un fattore di merito, quanto piuttosto un parametro di scala: il sublime è ciò che eleva. Benvenga ogni tipo di risultato artistico intriso di bellezza che sia capace di portarmi oltre, fuori dall'opera e dalle sue associazioni primarie, più in alto, verso la percezione stessa dell'altezza come prospettiva di visione dall'alto della nostra esistenza. E come riflessione sulle idee di cosmo, bellezza e grandezza. Il fatto che al sublime, insieme al romanzo, a dio, alla rivoluzione e alla maggior parte dei valori della morale sia stata data degna sepoltura, non significa che l'uomo abbia smesso di inseguirli e invocarli. Il sublime (in termini clinici potremmo dire ansia della salita verso l'alto) è un ambito oggi poco frequentato, e tuttavia preciso, oserei dire una specializzazione nel vasto campo dell'arte contemporanea.
Sposata questa premessa, è giusto, riconoscere quella tipologia di opere che più di altre funziona come catalizzatore di elevazione. Io perlomeno non abdico al mio diritto di riconoscere il sublime e la tensione verso l'assoluto che promana da esso. Voi, fate come credete.
In Shanahan, il sublime si esprime anche come sintomo di libertà. Libertà di vedere quello che desideri vedere e sentire. Libertà di vivere senza piegarsi alle regole o al buon senso. Libertà di lasciare un lavoro aperto, o apparentemente aperto. Libertà di vivere, pensare e lavorare per il proprio tempo ma fuori dal proprio tempo. Libertà di esplorare dentro di noi quelle distese di terre vergini coperte di stelle che nessun villaggio globale ci potrà mai sottrarre.
Eugenio Alberti Schatz
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