[30/3/2004]
Senza punto
Alta sartoria
Glu glu dice la bottiglia che si sporge sul bicchiere, io verso e nel tempo che si versa sui cubetti l'onda rossa i pensieri diventano liquidi e casuali, penso che sto per bere, penso al primo sorso, penso che glu glu in russo forse si dirà gla gla, mi sono sempre chiesto perché i suoni onomatopeici cambiano da lingua a lingua, in fondo il rumore delle cose è uguale in tutte le lingue, boh, e allora dalla perplessità mi metto a pensare a quel filo snocciolato che libera un sedere mitologico che schiaffeggia tutta la costa azzurra e si specchia negli occhiali scuri, e quel sedere è tutta la gioia di un paese neorealista che ha fatto boom, che ha fatto i danée, e in fondo un sedere così basta guardarlo, non serve di più, e poi quel filo così agile, così preciso, penelope all'incontrario, infatti è lei che se ne va lasciando il suo anziano amico all'asciutto, e allora penso a quel filo di lana e penso a quel monumento fuori scala che hanno messo di fronte alla stazione dei treni vicino al castello, un grande agofilo che si tuffa nell'asfalto e che sbuca più in là con un colpo di reni, un drago buono dal sorriso kitsch che dovrebbe essere l'anima della città, ma dovevano farlo prima, quando le sartine andavano con gli ufficiali, tanto dopo la new economy toccherà alla moda, e io che mi crogiolo di necessità nello shabby chic non potrò sopprimere un accenno di sorriso sadista (mia figlia, che è un po' straniera come me, dice sadista invece di sadico), e allora torno a quel filo e penso a quando giovin uomo mi ero fatto un bel ponteggio di aspirazioni, come è giusto che sia, e una di queste aspirazioni era l'eleganza classica, maschile, fuori tempo, era il mio talento di essere anti griffe, anti jeans, a modo mio superbamente anti tutto quello che non mi andava, e però non è che avessi molte risorse per andare da piombo o altri veri sarti, e allora ho dovuto aspettare il mio grande viaggio in argentina dove mi dicevano che c'erano dei bravi sarti, la cosa più complicata con il mio primo sarto è stato mettersi d'accordo sulla cifra perché al pomeriggio l'inflazione rendeva obsoleto il preventivo del mattino, a buenos aires, nella centralissima sarmiento, al primo piano o al secondo, longstaff & fijios era un inglese ma il sarto cucente era italiano, alle pareti c'erano riproduzioni ingiallite di modelli anni settanta di chissà dove, chissà quali anni settanta, tristezza, ma io ero felice e giovin uomo e ho fatto le mie brave tre prove per quattro vestiti, due giacche e un inutile e perverso gilet grigio con bottoncini di madreperla, mi sentivo potente e raffinato malgrado la crisi dell'argentina che filtrava dalla finestra, ma insomma non è che si smette di fare safari solo perché in africa si muore di aids, il giorno del ritiro quell'omuncolo inglese fa una scenata perché alla giacca più riuscita l'italiano aveva fatto due asole, che non è classico per niente, una sul risvolto sinistro, che è giusto, e una su quello destro, che è un'eresia, era un'idea di giancarlo, eleganti non si nasce, ci dev'essere un arbiter altrimenti non vai lontano, mi aveva schizzato dei disegni per prepararmi psicologicamente ad andare dal sarto, perché non è che dal sarto ci vai proprio così, devi avere le idee chiare, devi far vedere di avere il controllo, come sul cavallo, come con la servitù, io cercavo di discolpare invano il sarto italiano, e così ho capito che il sarto italiano tanto bravo e pelato e paziente era più bravo ma succube, regola numero uno, non sempre i bravi arrivano in alto, il mio secondo sarto dev'essere stato in un mercato nell'isola di ceylon, viaggio di nozze con la mia fidanzata che non ho mai più sposato, la francesca, scuola indiana, gli dai un capo e alla sera ne ricevi due, non è proprio il sarto europeo, ma torni in patria con la sensazione che gli altri ti guardino anche se non sanno perché, qualcuno forse sospetta che qualcosa non vada in te, regola numero due se non hai abbastanza soldi non puoi andare per il sottile oltre un ragionevole livello, il mio terzo sarto era in via spartaco un vecchio ungherese venuto in italia al tempo del fascismo, ho comprato qualche metro di cover extra-lusso di un verde anglo-piemontese dietro la cattedrale e l'ungherese mi ha cucito un vestito, la sua bottega era la più squallida stamberga di stoffe mai vista, non c'erano neanche i modelli anni settanta alle pareti, c'era solo la malinconia di un fascista ungherese partito come i salmoni in controflusso e capitato in una pozza sbagliata, si lamentava dicendo che il padre gliel'aveva detto di scegliere un business sicuro e stabile tutto l'anno, per esempio il falegname di bare, invece il sarto è stagionale, è un mestiere capriccioso, mi ha trasmesso insicurezza quel bastardo, così non sapevo a che altezza far finire le maniche, e se ti prende l'incertezza sei finito, e così alla seconda prova il sarto mi ha minacciato perché ero insicuro, mi racconta la storia nel dopoguerra a milano di un sarto che esasperato dal proprio cliente che continuava a fargli spostare di altezza la manica ad un certo punto ha preso un paio di quelle forbici con cui di solito si tagliano i pollici nelle fiabe sadiste, c'è anche una copertina di adelphi che ha segnato la mia fanciullezza, e le ha cacciate nella pancia del cliente, andando a finire diritto a san vittore però a testa alta, certo di essere diventato il santo patrono in segreto di tutti i sarti incazzati della città, allora ce n'erano certo più che oggi, io ebbi paura e alla terza prova feci un errore, venni con la francesca come mediatrice, la cosa è finita bene solo apparentemente, il vestito era immettibile soprattutto la giacca, ha fatto come i cuochi che pisciano nelle pietanze dei clienti antisociali, il giorno che sono andato a prendere il vestito ero così furente che appena uscito da quella porta mi sono rivolto per sfregio a un altro sarto di quartiere subito lì dietro, dietro l'angolo, entro e non mi accorgo della trappola, questo era il quarto e ultimo sarto della mia vita, entro e saluto, da dietro il bancone esce… un nano, un nano, sì un nano, io ormai non potevo tirarmi indietro, non era proprio la mia giornata e io figuriamoci se non ero politically correct più di un padre californiano divorziato con cinque figlie che insegna women studies in un campus cattolico di san diego, e così il nano sale su un panchetto e prende le misure della giacca, e sì, mi conferma che l'altro sarto era un macellaio, comunque mi sistema la giacca, il vestito è bello, l'ho usato da giovin uomo per fare incontri importanti, per esempio quando sono stato ricevuto al cremlino dal consigliere per l'ambiente di eltsin per un'intervista, era aggressivo ma io ero bravo e intelligente e alla fine mi ha preso in simpatia, se lo porti bene l'abito fa molto di più che farti sembrare un monaco, comunque dall'ungherese ho ereditato la regola numero tre, se hai problemi con il posto dove stai la tua vita si avvelena facilmente, e dal nano la regola numero quattro, forse l'unica regola non apocalittica, e cioè che l'umiltà può essere un balsamo, solo che l'umiltà niente ha a che fare o vedere con gli orizzonti di un giovin uomo, e così la mia gioventù sartoriale si stemperava via via per colpa di strani sarti che mi mandavano oscuri messaggi da tutto il pianeta, i vestiti argentini sono stati donati, forse qualcuno è finito nei cassonetti gialli della solidarietà, che chissà dove finiscono, ma io lo so dove finiscono, il mio collega alessandro un giorno mi mette in mano un biglietto per tunisi si parte oggi e si torna domani per incontrare una ditta che si chiama sicofrip che prende tutta quella roba smessa dall'italia e la smista la rivende o la massacra per farci gli stracci industriali o anche dei bellissimi feltri che servono per non sporcare quando si imbianca, ma sono sicuro che arriverà qualche designer che si inventerà degli spremiagrumi con questi feltri tanto sono belli e consistenti, allora arriviamo a tunisi e il cliente non è abituato a pagare per fare un sito, pensa che i siti si trovino nei cassonetti, così in aereo al ritorno con alessandro coniamo un insulto affettuoso, “sei un sicofrippo”, a me ricorda gli odiosi sicofanti che avevo studiato al liceo della commenda e mi dico che aggiungendo una p davanti come in greco potevano essere dei personaggi di philip dick, per esempio dei poliziotti galattici che corrodono l'impero da dentro, ecco siete tutti dei sicofrippi, anch'io, siamo solo capaci di maciullare i miti del giovin uomo, tanto tutto diventa abito da confezione, griffe per turisti giapponesi in galleria o feltro per imbiancare se va bene, poi però considero la faccenda da un altro punto di vista, cioè che ogni cosa ha una seconda vita, e forse anche di più, tante vite buddhiste, e anche i miti del giovin uomo possono essere recuperati, riutilizzati, dissezionati e ricomposti per altre stagioni, altri miti, meno coercitivi, meno prepotenti, meno gloriosi ma pur sempre miti, e che qualcosa dei primi miti vive nei secondi, e che nell'uomo del disincanto c'è pure qualche filo dell'uomo furioso, e così mi placo, e sicofrippo non è più un'ingiuria, è solo una mesta felliniana frusciante constatazione, e allora tiro i fili del giovin uomo e capisco che in fondo c'è sempre un fil rouge che ti salva. Punto. Na zdorov'je.
Eugenio Alberti Schatz
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