[1/12/2004]
Lo sguardo in viaggio
Quando si viaggia lo sguardo diventa ampio, lucido, assorbe tutto. Lontano da casa lo sguardo diventa più libero e si scrolla di dosso incrostazioni, timori reverenziali, banalità. Diventa più ingenuo e meno mediato, più aperto allo scambio con gli altri. La mia non è una teoria basata su dei fatti ma solo una convinzione che viene dall'esperienza di viaggiatore. Questa puntualizzazione è importante, perché il video che vi farò vedere e la mia riflessione non hanno alcuna pretesa oggettiva, hanno senso solo all'interno di un racconto di viaggio.
La novità, la distanza, l'esotismo creano uno stato di perenne sovreccitazione dello sguardo. Il viaggiatore non è un antropologo che si pone il problema dello sguardo, è piuttosto un consumatore di sguardi. I viaggiatori sanno bene che questo stato dello sguardo diventa una specie di droga e per questo non vedono l'ora di ripartire.
Il viaggio richiede che sia disinserito il pilota automatico per far fronte a una quantità eccezionale di immagini nuove. Ora, quando ci si trova di fronte a qualcosa di nuovo, intendo nuovo per noi, cioè anche antico ma estraneo alla nostra cultura e al nostro paesaggio quotidiani, la mente del viaggiatore agisce come quando si guarda un quadro di arte astratta. Se non si hanno alle spalle un'educazione all'arte moderna e una rete di riferimenti adeguati, si tende a fare dei paralleli con l'arte figurativa, e quasi sempre ci si imbatte in un muro, perché sotto questa lente l'arte di oggi appare più povera, astrusa, inaccessibile. Se invece si conosce almeno a grandi linee l'arte contemporanea, allora ci si prende il lusso di lasciarsi ‘cullare' di fronte all'opera o all'installazione in un attegiamento un po' zen. Sapendo che prima o poi l'illuminazione arriverà.
Penso che non ci sia niente di male ad ammettere che di solito il viaggiatore rientra nella prima categoria e che insieme al nostro corpo, alla nostra educazione, alle nostre curiosità, in giro per il mondo ci portiamo dentro un impianto di interpretazione molto ingombrante, assai legato alla nostra storia e al luogo da cui veniamo. Rimaniamo sempre e comunque uomini occidentali, in qualsiasi contesto si venga immersi. Solo viaggiatori esperti, o studiosi che hanno passato lungo tempo in certi luoghi, sono in grado di accantonare almeno parzialmente le categorie del luogo d'origine, quella griglia non solo di pregiudizi ma anche di criteri di interpretazione elementari del mondo. Questo naturalmente vale anche all'inverso, come sanno bene gli immigrati che ci mettono anni a sintonizzarsi con la nuova realtà che li accoglie (o li respinge). Ci vogliono anni per acquisire e comprendere la cultura, la lingua, le abitudini di un luogo. E solo una cultura della globalità a buon mercato può far credere che esistano delle scorciatoie.
In ogni caso il viaggio arricchisce e noi non dobbiamo rinunciare al viaggio breve. Il passaggio fra questi due tipi dello sguardo – di chi è rigido e cerca conferma, e di chi invece si lascia più andare – non è fluido, avviene a sbalzi, per scarti improvvisi, come mi è sembrato anche di leggere nel libro della Fiore. Insomma, ci possiamo sempre provare.
Peter Weil è un autore russo che appartiene a quella categoria di viaggiatori che non escono dalla propria stanza, un po' come Frederic Prokosch che nel 1935 ha scritto Gli asiatici, e ancor'oggi non riesco a capire come abbia fatto senza esserci stato. Weil ha pubblicato nel 1999 un libro molto interessante, intitolato Geniij mesta (‘Genius loci') dove fa il ritratto di una serie di città attraverso un gettito continuo di citazioni e associazioni, in particolare racconta coppie di città attraverso coppie di artisti, per esempio la Los Angeles di Charlie Chaplin accanto alla San Francisco di Jack London, la Milano di Visconti accanto alla Rimini di Fellini, e così via in giro per il mondo. Nell'introduzione scrive: “È interessante rapportarsi ai propri viaggi come a un unico processo, nel corso del quale i confronti sono inevitabili e sono il principale strumento di analisi.” Questa frase ci dice due cose importanti: che tutti gli sguardi del viaggio sono sempre collegati fra loro – quello che facciamo è un unico, lungo viaggio – e soprattutto che sono collegati al genius loci da cui proveniamo. Eccovi un esempio di analisi comparativa in viaggio, un esempio certamente molto poco ortodosso. (proiezione video)
Le opere di Lucio Fontana sulla colonna di sinistra sono tratte dal catalogo della mostra organizzata a Roma per il centenario a cura di Crispolti, un anno prima delle cinque mostre di Milano. Il video sulla colonna di destra, invece, è stato girato da un regista russo che vive in Kyrgyzstan, Evgenij Kotlov. Il personaggio che appare è Shaabai Azizov. Nel 1999 ho fatto un viaggio in Asia Centrale insieme al fotografo Stefano Torrione. L'incontro più forte ed emozionante è avvenuto a Karakol, in Kyrgyzstan, in modo un po' fortuito, con il manasci Shaabai Azizov, probabilmente il più grande della vecchia guardia, che si è esibito per noi a casa sua indossando il costume tradizionale. Il manasci è il corrispondente dell'aedo, cioè un incrocio fra poeta, improvvisatore e cantante, come avete visto (non a caso oggi il poema si insegna nei conservatori del paese). I tre cicli del Manas, che è il nome dell'eroe, si compongono di quasi 1 milione e mezzo di versi, e sono l'eredità orale più imponente dell'Asia centrale turcofona.
Ma che c'entra il Manas con Lucio Fontana, si tratta di due fenomeni culturali distanti anni luce… L'epica ci rimanda alla tradizione di una civiltà guerresca, a una cultura arcaica in cui l'autore non era ancora emerso come individuo (un proverbio chirghiso dice infatti che se un manasci cambia una sola riga del poema va incontro a morte sicura), mentre Fontana era un pezzo di futuro scagliato nel presente, positivista e futurista, idolatrava la tecnologia, la scienza, i nuovi materiali, le nuove luci, la teoria della relatività, aveva avuto intuizioni sulla radio e sulla televisione molto più moderne di artisti più giovani del suo periodo. L'amico e architetto Rogers diceva di Fontana che è ‘moderno per definizione'. Fontana in un uno dei suoi manifesti scriveva “Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi poiché le conquiste della tecnica sono ormai al servizio dell'arte che professiamo.”
Un nesso c'è, almeno per me, per quanto possa essere personale. Prima di partire per l'Asia mi trovai a passare in bicicletta sul cavalcavia che passa sopra la ferrovia in via Ripamonti. A sinistra e a destra del ponte, su ciascuno dei pali della luce era appeso un manifesto con un Concetto spaziale rosso di Fontana, con un solo taglio in verticale. Era la locandina delle sue mostre a Milano per il centenario. Era un'immagine forte, seriale, che faceva onore al desiderio di espandersi nello spazio di Fontana. In quel momento tuttavia ebbi un pensiero negativo, scettico: mi chiesi che cosa avrebbe mai potuto cogliere di questa immagine un asiatico a Milano che fosse capitato là, rispetto al vasto bagaglio di informazioni, di rimandi, di collegamenti che quella stessa, semplice immagine rappresentava per un milanese come me. Per esempio, il simbolo estetico ma anche culturale di una stagione milanese di glorie e di protagonisti dell'arte ormai annebbiata nel mito. La risposta fu: non avrebbe potuto capire assolutamente nulla. Figuriamoci che cosa avrei potuto capire io dei luoghi che ero in procinto di visitare, dei significati simbolici o reali di molte cose che avrei incontrato…
Ne trassi un'impressione negativa ma anche un momento di grande tenerezza per la mia città e per Fontana, per questo signore così umile e così passionale che tutti chiamavano Maestro, per nulla schizzinoso verso la committenza alto-borghese, infaticabile nel lavoro e nell'innovazione, un artista che ha disseminato la città di presenze tangibili, come il bassorilievo in ceramica al cinema Arlecchino o il progetto per le porte del Duomo al Museo del Duomo o il bassorilievo della casa di fronte all'Archivio di Stato in via Senato. Mi ha sempre colpito il suo nome Lucio, come luce, e Fontana, come fonte. Un signore che seppe raggiungere il suo vertice creativo all'età di sessant'anni. Fontana ai miei occhi è un personaggio dalle tinte eroiche, sempre in prima linea, sempre indipendente rispetto ai maestri, agli allievi, ai colleghi, alle correnti come l'Informale. Per inciso, la prima scultura astratta esibita in Italia era di Fontana, alla Galleria del Milione, nel 1935. E pensare che all'Accademia di Brera Alfredo Wildt gli insegnava a scolpire un uovo da un blocco di marmo. E poi Fontana era argentino, portava di quel paese il senso dei grandi spazi e anche il gusto per il primitivo, almeno all'inizio della sua carriera. Enrico Crispolti ha scritto che “coniugava felicemente il dinamismo tecnologico-industriale lombardo alla spregiudicatezza pionieristica argentina”.
Vi riporto un passo di un comunicato stampa che ho scritto per una mostra di abiti disegnati da artisti nel 1961, fra cui Del Pezzo, Pomodoro, Baj e Fontana, per l'atelier Bini Talese, in via Montenapoleone.
“A dispetto della location nella via simbolo, all'epoca, di un certo conservatorismo borghese nel vestire, Bruna Bini e Giuseppe Talese erano dei creatori di abiti controcorrente. Bruna Bini ricorda: «A Milano danzatori classici, cantanti, attori, pittori, scrittori e critici si salutavano per strada dicendo Ci vediamo dalla Bruna. Ecco, quella Bruna sono io. Erano belle chiaccherate, bicchieri di vino e piatti di spaghetti che mi portavano a distruggere il bel vestitino per la signora milanese borghese e mi stimolavano invece a creare un défilé di abiti con interventi di pittori. Fu una vera bomba!... Quegli abiti furono la prima pietra di rottura nel mondo stantio della moda di allora.» Gli abiti d'artista furono naturalmente abiti provocatori poiché lasciavano scoperte zone del corpo allora tabù ma provocatori anche nella concezione, poiché si ponevano in maniera del tutto antieconomica rispetto ad una loro riproducibilità. O meglio, in maniera ironica. La collezione ebbe eco anche oltralpe: Iris Clert, la grande gallerista parigina che rappresentava Yves Klein, acquistò un abito di Fontana e un altro abito di Fontana fu acquistato da Brigitte Bardot.”
Per capire come è andata a finire quella stagione basta leggere il comunicato più avanti. “Oggi a proseguire l'attività di Bruna Bini c'è la nipote, Gentucca, che con la collezione To be continued ripropone i pezzi storici realizzati in passato dall'atelier. Dal 1997 gli abiti della collezione sono distribuiti con un particolare packaging sottovuoto negli shop interni di diversi musei in America e in Europa, fra cui il Philadelphia Museum, il Guggenheim Museum e Palazzo Grassi.” La morale è che il passato non ritorna e quella stagione può al massimo stare sotto vuoto nei muse.
Per ritornare a Shaabai Azizov, di fronte a questo consumato artista che ha aperto a noi con tanta generosità la sua disciplina carica di mistero, la scorza del mio cinismo di viaggiatore globale si è rotta in mille pezzi. Azizov ci ha ricevuto a casa sua, ha indossato il costume tradizionale – pagato, devo dire, come usa in Oriente – e si è esibito per noi. In quel momento ho ripensato allo scetticismo provato sul cavalcavia di via Ripamonti e mi sono detto: uno spazio per capire le cose con il cuore – anche quando non ci si arriva con le mente e le conoscenze – si trova sempre.
Da una parte dunque l'affetto per la mia città, che ha trovato come massima espressione il lavoro di Fontana. Se fossi sindaco, proporrei di adottare un taglio di Fontana come emblema della città, invece di quella banale croce rossa… Nel taglio di Fontana c'è non solo un punto nodale della storia dell'arte del novecento ma anche lo spirito della mia città, del mio luogo, così come lo prioetto idealmente nel passato, quando arte e industria si parlavano sul serio, quando le classi si frequentavano, si mescolavano, si contagiavano, quando Milano produceva sviluppo, cioè non solo soldi ma anche idee, quando c'era la sensazione di essere al centro di qualcosa di importante. Lo so bene che facendo così cado nell'idealizzazione, in un'epica appunto in cui affondo le frustrazioni per il presente. Però è così, è umano: Fontana è un genius locileggermente spostato indietro nel tempo.
Dall'altra parte c'è Shaabai Azizov, la summa dello spirito nomade, di una cultura che così come è capace di smontare le proprie iurte in tre ore, si porta in giro da secoli la propria cultura in un poema. Una cultura agile e stranamente attuale, visto che i sociologi decretano per l'uomo moderno una sorta di nuovo nomadismo culturale.
Fontana e Manas, due spiriti del luogo, cioè la loro sintesi suprema, che per un istante – almeno nel mio viaggio – si sono incontrati. Questo mi porta a dire che lo sguardo del viaggiatore è uno sguardo libero, diagonale. E irriverente.
Eugenio Alberti Schatz
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