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È un percorso non lineare quello che mi ha condotto ad esplorare ambiti diversi della scrittura e della creatività. Per chi ama scoprire anche ciò che non sta cercando, per chi ama spigolare seguendo il proprio istinto, qui c'è del materiale: riflessioni e contributi di arte, fotografia, video, poesie, comunicazione, geografia, personaggi…

[28/1/2005]

Fabbrica & fotografia

Fabbrica: uno sguardo difficile

La fabbrica, intesa come luogo fisico della produzione secondo criteri tecnico-scientifici, ha subito nel corso del Novecento un'evoluzione radicale, fino ad arrivare ad essere messa in discussione a partire dagli anni '80 e '90, quando la triangolazione spazio-macchine-uomini incomincia a spalmarsi nel tessuto produttivo. Della fabbrica sono via via cambiate le coordinate primarie: l'incidenza del lavoro qualificato e la logistica, la sincronia con il mercato, la gestione economica e quella della conflittualità, le condizioni di sicurezza e l'igiene, l'architettura e la comunicazione, le dimensioni e la dislocazione nel territorio. Le nuove fabbriche sono via via diventate luoghi di raccolta di parti prodotte in altri luoghi, centri nervosi più che muscolari. Per paradosso, nella fabbrica postindustriale la produzione emigra e restano gli uffici.

Il mito visivo della fabbrica invece, quello delle associazioni profonde evocate nello spettatore, è rimasto sostanzialmente immutato. Anche quando è rivendicata come diritto o desiderata come status professionale o riconosciuta come corpo di appartenenza o trasfigurata come oggetto estetico, la fabbrica continua ad essere il luogo cupo dei neon e del rumore, della fatica dei nervi e dei fumi, di un tedio inquieto. Un luogo di umanità rarefatta, ostile alla persona in quanto tempio dell'impersonalità e del pensiero seriale. La sirena scandisce i tempi coercitivi di una caserma al lavoro o peggio, di un istituto di cura mentale per pazienti ancora sani.

La fabbrica era un fenomeno estraneo alla sensibilità premoderna ma anche per i moderni non è facile da rappresentare. Divora o crea le periferie crescendo dietro reti e muri di cemento, a sancire la discontinuità con la vita spensierata della città-vetrina. È la dorsale di quasi tutte le fratture sociali – giovani e vecchi, Nord e Sud, uomini e donne, ingegneri e operai, cultura urbana e mentalità contadina. Ma soprattutto è il luogo in cui si è consumato il fallimento di ogni chance di redenzione dello sviluppo industriale. Tutto ciò che di buono in essa ha potuto incubarsi – l'evoluzione della tecnica, un certo tenore di benessere, la solidarietà, l'integrazione di culture diverse – sembra realizzarsi malgrado la fabbrica, rompendo le sue leggi. La fabbrica congela le contraddizioni del capitalismo, anche nella versione socialista. Lo splendore della modernità si edifica sulle ossa di generazioni dalle opportunità monche, di persone che cercano o sognano di fuggire dalla fabbrica, e se non ci riescono, di far fuggire almeno i propri figli. Ancor'oggi, in piena età postindustriale, nelle cantine dell'immaginario persistono fastidiosamente i volti interroganti di donne e bambini brutalmente spremuti nei periodi storici del primo decollo industriale e dell'economia in tempo di guerra.

Nulla di strano perciò che la fabbrica sia stata celata alla vista e mostrata solo a certe condizioni. Senza una mediazione – ideologica, sociale o artistica – lo sguardo nudo puntato nel baratro avrebbe dato un senso di vertigine.


Una coltre di nebbia

Il romanzo italiano del dopoguerra esprime bene la difficoltà di guardare dentro la fabbrica. Il tipografo Giovanni Marini è l'eroe di Tempi stretti di Ottiero Ottieri (1957), romanzo che porta in scena l'età delle trasformazioni del lavoro (ma quando, viene da chiedersi, la fabbrica non è stata al centro di processi di transizione e riorganizzazione, fino a divenire oggi una sorgente di mutamento permanente?). Non è facile vivere il lavoro nella scomoda posizione dei fanti, l'operaio è chiamato a dare un senso all'evoluzione del suo mondo: “Deve sfondare ogni giorno il buio che ha intorno e capire con fatica. Prima, si abitua a considerare se stesso, poi il vicino, poi la fila dei vicini, poi il reparto, l'officina, lo stabilimento, gli altri stabilimenti, la sua città e la sua nazione, la sua classe. Deve imparare a comporre la tele degli interessi comuni e degli interessi nemici e leggere in un episodio il significato del mondo.” Ma il futuro non serba vie di fuga: “Che le macchine siano fatte per gli uomini, o gli uomini per le macchine – di certo una caratteristica delle produzione è di organizzarsi sempre più in maniera da risentire sempre meno gli umori degli uomini.”

Anche Walter Ferranini, il protagonista de Il comunista di Guido Morselli (1964-1965), è un eroe perplesso. Figura controcorrente di deputato che ha viaggiato in America e in Unione Sovietica, è ossessionato dall'equivalenza fra pena e lavoro, fra fatica e sfruttamento. Pensa a un disegno di legge contro gli infortuni e afferma: “Il lavoro con la sua penosità è dunque una condizione universale e insopprimibile. Senza riscatto.” Ferranini, che dice lavoro ma intende fabbrica, vede l'uomo sovrastato dalla potenza di una natura cieca: “La tecnica non può cambiare l'ordine delle cose. L'inevitabilità del lavoro, cioè la mortificazione che il lavoro determina, dipende da condizioni obiettive, ossia dalla posizione che la vita, non solo la vita umana, ha dentro la natura.” Su un piano intuitivo, Ferranini prende atto dell'impossibilità di un'alternativa alla fabbrica moderna.

Il lato oscuro incombe anche quando la grande fabbrica manifatturiera volge al tramonto. Nell'ultimo decennio del '900 l'instabilità del panorama industriale italiano raggiunge un grado prima sconosciuto. L'elevata mortalità delle aziende diviene un dato di sistema. In questo nuovo paesaggio economico, come ci dice già nel titolo il romanzo di Ermanno Rea La dismissione (2002) dedicato allo smantellamento della grande acciaieria di Bagnoli, la fabbrica cessa di generare identità sociale. Il romanzo è la veglia funebre che il tecnico Vincenzo Buonocore fa alla fabbrica amata e rigettata, al monstrum che ha portato simultaneamente opportunità e devastazione ambientale e che si inabissa con la stessa violenza con cui era apparso. Lo smontaggio delle colate continue è la picconatura di cento anni di storia industriale, è lo smarrimento di una generazione che ha creduto nello sviluppo: “Ma più noi le davamo sotto a colpi di maglio, più lei resisteva: avevi voglia di sbullonarla o ridurla in pezzi. Sembrava infinita e onnipotente. Era come se quanto le sottraevamo di giorno lei se lo ricostruisse silenziosamente di notte, in modo da apparire, al mattino dopo, più svettante e minacciosa che mai, con i suoi fumaioli e le sue navate di cattedrale dei nostri tempi.”

Tutti e tre i personaggi citati raccontano la fabbrica ma non la comprendono, non ne colgono la finalità. Vivono sulla loro pelle un mondo antiumano e in questo sono compiutamente kafkiani. In Amerika di Franz Kafka (1910) il Nuovo Continente è la metafora di un'unica, grande fabbrica estesa, un continente-fabbrica. L'episodio del fochista del transatlantico che viene licenziato dal capomacchina fa capire sin dalle prime pagine che cosa vuol dire essere in balia di un arbitrio ex machina. Il lavoro è espiazione di colpe che non si sa di avere commesso. È questo che incute timore: la non comprensione di come siano prese le decisioni, l'impossibilità di incidere sui meccanismi che generano e governano il lavoro.

Nella fotografia Interno stabilimento Saiwa di Ugo Mulas (1968) lo spettatore è immerso in un ovattato acquario kafkiano, in cui le operaie da una parte e un tecnico dall'altra sono dediti alle proprie mansioni. La pluralità dei piani prospettici esprime la complessità delle gerarchie ad incastro – ciascuno ha un capo sopra di sé o un subalterno sotto di sé – ma nell'insieme priva di senso: le ragioni restano oscure, la pulizia dell'ambiente e il nitore dell'obiettivo amplificano un carattere di scientifica estraneità del lavoro alle preoccupazioni dei singoli individui. È l'atmosfera che rende l'uomo automa, prima ancora che la macchina. Questa mistica negativa, appunto kafkiana, non può non essere messa in relazione con le difficoltà storiche del movimento operaio e della sua espressione politica ad esprimere un modello di rovesciamento della civiltà della macchina.

La fotografia ha dovuto impregnarsi di motivazioni assai forti per riuscire a bucare la cortina che oscura la fabbrica, una cortina che non si spiega soltanto con le difficoltà di avere il permesso di fotografare al suo interno. Guardando a volo d'uccello la produzione fotografica italiana dal dopoguerra ad oggi, fra le motivazioni che hanno ispirato gli autori tre sembrano essere quelle emergenti: l'esaltazione estetico-ideologica dell'impresa; il desiderio di documentare l'umanità degli operai; la ricerca di matrice artistica. Ai fini di una storia della mitologia visiva della fabbrica, gli esiti più interessanti sembrano far capo proprio a questi tre fil rouge.


Lo specchio del valore

La mitopoiesi del valore è congenita alla rappresentazione che l'industria propone di se stessa. Nella seconda metà dell'800 la manifattura tessile Marshall & Co., nello Yorkshire, fece stampare un cartonato con illustrazioni a sbalzo in cui la vista dall'alto della fabbrica era inserita fra due antiche colonne egizie ricoperte di geroglifici. La monumentalità degli edifici era accostata a un Oriente kitsch, appropriandosi di un luogo mentale da cui provengono spezie, seta, schiavi e tutti gli altri attributi del lusso. Italo Zannier ha visto bene la linea di continuità che attraversa il genere fotografico industriale sin dagli albori: il paesaggio della fabbrica è pittoresco, quasi sublime. A partire dal Novecento l'esotismo si salda all'enfasi monumentale e al gusto dell'iperbole. La reputazione diventa un valore fondante e la comunicazione è chiamata ad esserne il megafono, non a caso si diffonde l'uso di grandi cancellate con il marchio dell'azienda. Ecco perché nel 1916 l'imprenditore Pio Perrone scriveva all'architetto Ravinetti a proposito dell'Ansaldo: “Voglio che le fabbriche siano belle e possiedano quell'aspetto imponente al quale hanno diritto poiché sono effettivamente grandiose”. Quando arriva il fotografo all'Ansaldo, la fabbrica diventa un set, il lavoro viene fermato, gli operai vengono messi in posa come scolari vicino ai banchi. La fabbrica è il regno della simmetria, la fotografia è lo strumento panottico per redigerne l'inventario. Il fratello, Mario Perrone, nel 1912 scriveva: “Vi prego di fotografare sovente l'uscita degli operai in massa, in modo che appaiano essere molto numerosi, e che si colga l'aspetto grandioso che deriva dall'importanza numerica della manodopera.” L'uomo è mera unità di calcolo, metro della monumentalità, carne da cannone per costruire cannoni. Con lo stesso spirito dimensionale, negli anni '60 e '70, fra le aziende anche piccole del Nord Italia era diffuso l'uso di affittare un elicottero per far scattare immagini dall'alto che dessero la misura dell'estensione dello stabilimento, alimentando una retorica del prestigio e allo stesso tempo trasferendo ai propri interlocutori un'informazione di ordine finanziario.

Dagli scatti con file a perdita d'occhio di operai pettinati accanto a pile di proiettili, puri ‘servi della macchina' nell'accezione marxiana, ai paesaggi di tubi, generatori e ciminiere il passo non è lungo. La consacrazione della tecnologia, che via via comporta investimenti economici sempre più elevati, porta a ritrarre cattedrali enigmatiche in cui la presenza dell'uomo è quasi sul punto di sparire. L'esotismo della fabbrica come luogo distante e imperscrutabile ha influenzato la fotografia anche al di fuori del lavoro su committenza, affiorando per esempio nell'opera di maestri come Gianni Berengo Gardin ed Edward Rozzo sotto forma di un'interpretazione quasi lirica dell'oggetto e del paesaggio industriale.

Quando a partire dagli anni '70 e '80 la gestione del sapere tecnologico e manageriale diventa cruciale, le imprese accorciano l'obiettivo. Nelle monografie che presentano l'azienda è il momento dei visi di operai a distanza ravvicinata, delle riunioni di tecnici, degli addetti ai computer. L'uomo è diventato un fattore di valore. Nella fabbrica dell'automazione gli operai sono un drappello sparuto ma quegli uomini rappresentano un valore elevatissimo: da servi della macchina sono diventati sorveglianti. Sempre più spesso l'impresa si vede e si proietta all'esterno come organizzazione pensante che coltiva lo spirito di squadra, la circolazione delle informazioni, la motivazione e la formazione delle persone. Anche in questo spostamento, tuttavia, non viene a mancare nella fotografia la matrice ideologica della fabbrica come ‘tempio del lavoro', a dimostrazione di quanto le immagini di ieri influenzino quelle di oggi. (Non viene meno insomma l'intenzione di catturare il consenso facendo ricorso a immagini, secondo la definizione di Cesare Colombo, “ridondanti di efficienza”.) Come se, al momento di scattare un'immagine, ogni autore attingesse a un enorme bacino di fotografie già fatte, già dette, e potesse soltanto interpretarle, modificarle leggermente, ma non stravolgere le griglie che le sorreggono.


La scoperta del volto

In L'operaio la donna e la bicicletta (1945) Federico Patellani ritrae un operaio di Sesto San Giovanni mentre rientra dal lavoro al fianco della moglie e di una bicicletta. I dati per decodificare il contesto ci sono tutti: la tuta imbrattata, la bicicletta come mezzo di trasporto comune dell'operaio, il portamento composto di lui e la fierezza dello sguardo di lei pur attraverso gli occhi chiusi. Il set è esterno al luogo di lavoro ma questa foto dice molto sul mondo della fabbrica e inaugura un modo di fotografare intorno alla fabbrica che non esita a fare ricorso a categorie simboliche. Si arriverà per questa strada a un'altra celebre foto, Casa di ringhiera di Carla Cerati (1970), che ritrae tre tute stese ad asciugare in una casa di ringhiera, e nient'altro. In quelle tute è campionata tutta la durezza della condizione materiale e spirituale degli operai ma anche, forse, il desiderio di riscatto. Sono virtualmente tre uomini appesi (l'uniforme fa l'operaio) il cui volto siamo chiamati a colmare con l'immaginazione. La tuta simboleggia la vita quotidiana dell'operaio e della sua famiglia: quante tute lavate per il lunedì senza lavatrice, quanti calli, quanta angustia di orizzonti… L'indumento di lavoro, come l'uniforme militare, ha una carica semantica immediata che non richiede ulteriori informazioni. In Marco Polonioli operatore offset di Stefano Torrione (2002), la tuta dell'operaio nella camera bianca è una maschera integrale che porta a compimento la schermatura dell'individualità nella fabbrica automatica. I piedi che sporgono ironicamente da sotto la saracinesca ci suggeriscono tuttavia che la tecnologia è una coperta troppo corta, lasciando spazio in futuro a una riscossa di valori tipicamente umani come l'imperfezione, il gioco, l'ozio, la compassione.

La fabbrica genera nevrosi, il sintomo del rigetto istintivo di un mondo che non sa ascoltare l'individuo. Nel rendere per immagini i comportamenti ossessivi e devianti nella vita di fabbrica, il cinema italiano ha dato un contributo importante. Per fare solo un esempio, nel film di Elio Petri La classe operaia va in paradiso (1971) il metalmeccanico Lulù Massa somatizza la propria condizione, non fa più all'amore, soffre di ulcera. Ecco il suo lamento: “Io sono una macchina, io sono una puleggia, io sono una cinghia di una trasmissione, io sono una pompa, ma adesso la pompa è rotta.” In quegli stessi anni, sull'onda di una speranza di cambiamento che investe di petto il mondo del lavoro, il rèportage di cronaca veicola un'immagine non edulcorata del mondo del lavoro. Le immagini di alcuni fotoreporter non sono più soltanto un'interpretazione di ciò che accade di fronte all'obiettivo, ma parte stessa del movimento, piccole micce accese per far succedere ulteriori avvenimenti (si pensi alle foto di scioperi, cortei, cartelli, al rischio personale degli autori degli scatti…). I loro rullini scardinano i castelli del consenso innalzati da chi detiene il controllo politico ed economico, aprendo le porte a una pratica della fotografia che contempera denuncia civile e ricerca di nuovi linguaggi. Nella fotografia Operaia fra i filatoi di un lanificio (1982) Piero De Marchis fissa l'espressione sconsolata di un'operaia tessile, lasciata irreversibilmente sola di fronte al telaio. È anche grazie a immagini come questa che si dà l'ultima spallata alla retorica del lavoro come suprema virtù civica, retorica tanto cara al ventennio fascista e in genere ai regimi totalitari. Da elemento rappresentativo di un collettivo o di una classe, l'operaio diventa finalmente individuo unico. Acquista un volto, perde soggezione e arriva a denudare le proprie fragilità. La nascita del volto, se così si può dire, trova una conferma emblematica nella fotografia di Uliano Lucas Operai della Pirelli (1977). Qui l'obiettivo abbraccia una marea di volti attenti, coriacei, gli uomini con il berretto e le donne con il fazzoletto. La moltitudine non è, non deve essere negazione dell'individuo. Questa inquadratura dell'umanità in scala 1 a 1, senza orpelli e messe in scena se non la geografia stessa dei volti, diventerà negli anni quasi una nuova icona della classe operaia – altre fotografie, vignette satiriche, copertine di libri la ripeteranno più o meno consapevolmente – affiancandosi all'immagine simbolo del movimento operaio italiano, il quadro Quarto stato di Pellizza da Volpedo (1901). È una fotografia, quella di Lucas, dolorosa ma laica, non più intrisa di spirito risorgimentale o positivista: per uscire dalle tenebre bisogna ripartire da zero. Cioè da se stessi.


La fisica del lavoro e il filtro metafisico

Pur nella difficoltà dell'indicibilità della fabbrica, non sono mancati nella fotografia italiana casi sorprendenti sul piano estetico-formale. Fra questi si possono individuare come lavori fondativi gli operai di Bruno Stefani degli anni '30 e '40 e le vedute industriali di Gabriele Basilico degli anni '80. C'è una radice comune nei due autori: il teatro. L'uno rappresenta il punto di partenza della visione moderna della fabbrica, l'altro il punto d'arrivo. Il primo ha fissato gli attori, il secondo ha immortalato la scena. All'epoca del primo nacque l'utopia di un uomo al centro del progresso industriale, nella generazione del secondo l'utopia si spegne. Eppure senza il primo non ci sarebbe stato il secondo, poiché dal guscio vuoto della fabbrica promana, ancora a lungo dopo gli esiti storici, il sogno della modernità.

Bruno Stefani appare come un autore isolato, fra i pochi a portare in Italia la lezione del Bauhaus e delle avanguardie storiche, da Bayer a Moholy-Nagy e Rodchenko, pur nell'alveo di una fotografia commissionata. Le sue fotografie si riconoscono per alcune soluzioni tipiche della fotografia modernista come i chiaroscuri assai contrastatati, l'uso non convenzionale della fonte luminosa, lo scorcio diagonale e il disassamento della composizione, le geometrie concatenate e complesse. Nelle fabbriche di Bologna o negli altiforni di Sesto San Giovanni, Stefani illustra il rapporto simbiotico fra uomo e macchina. La concentrazione dei soggetti sull'azione, il loro sentire la macchina come protesi del corpo e nello stesso tempo come ragione della propria mansione, l'esaltazione estetica non di una macchina o di una lavorazione ma del binomio armonico di corpo intelligente e corpo facente, la bellezza di un ordine geometrico che taglia e organizza lo spazio della produzione… agendo su tutti questi tasti, le fotografie di Stefani danno vita a una fabbrica propriamente moderna. Quella di Stefani è la proiezione di ciò che la fabbrica moderna ambisce ad essere: una partita ad armi pari fra uomo e macchina. Probabilmente Stefani è stato il più futurista dei fotografi industriali italiani, il più attento a costruire un'immagine della fabbrica senza collusioni con il passato, il più interessato a quell'homo novus proiettato in avanti che si veniva coniando nella fabbriche e nelle officine prima e dopo il secondo conflitto.

I paesaggi di Basilico ritraggono ormai una cinecittà abbandonata, i muri di fabbriche sono quinte teatrali che coagulano la metafisica di Boccioni, Carrà e Sironi e forse portano in sé anche un frammento di quella pietas che Giambattista Piranesi infondeva nei disegni di antiche rovine. Le fabbriche, per la città industriale, sono come i porti per le città di mare: luoghi misteriosi, rimossi, di cui si ha paura. “Il muro chiuso della fabbrica racchiude una sorta di buco nero” scrive Basilico. Come non vedere nei paesaggi di solitudine di Basilico, in cui l'assenza dell'uomo è assordante e il tempo è sospeso ad libitum, l'espressione poetica del distacco fra fabbrica e uomo? Per lungo tempo delle fabbriche ci si vergogna, la loro architettura turba gli equilibri strutturali della città e urta una certa visione borghese della città, fatta di piazze vetrine gallerie e giardinetti. È solo con un'estetica postindustriale, dopo la moda dei quartieri industriali a New York e i recuperi urbanistici in Inghilterra, che le fabbriche diventano luoghi di cui riappropriarsi facendo leva sui nuovi stili di vita. La fabbrica diventa così un luogo da consumare senza cognizione del suo passato. Le periferie industriali diventano il moderno polmone urbanistico e spirituale in cui le città si possono espandere con rinnovato vigore. Con lo stesso meccanismo di traslazione con il quale gli indumenti da lavoro a più riprese sono diventati oggetti di culto da indossare nel tempo libero, gli stabili dalla silhouette seghettata sono pronti per essere trasformati in centri commerciali. Nel solco della tradizione documentaria del territorio dei Fratelli Alinari, Basilico stila un catalogo di luoghi ed edifici svuotati di senso ma non di memoria. Ne risulta, secondo Stefano Boeri, un effetto di ‘tavola anatomica', e la fotografia è il bisturi per dissezionare il cadavere della città industriale e ricomporlo in un'estetica universale che resista al precipitare del tempo e del marketing. Il lavoro di Basilico è in questo senso precognitore: solitudine prima, solitudine dopo.

Non a caso Vittorio Gregotti, uno dei più noti esponenti attuali della corrente modernista nell'architettura italiana, ricorda in Recinto di fabbrica (1996) i giochi d'infanzia scorrazzando fra i reparti, a contatto con gli operai, in un mondo in cui cose e uomini sono parimenti oliati. La fabbrica è un “recinto vasto e fatato”. L'amore per l'archeologia industriale è infatti un tuffo nell'infanzia dell'uomo moderno, una rimozione dell'asprezza della realtà a favore della dolcezza della nostalgia. Ma è la scuola a far crescere l'autore: “Anziché appartenere, come in fabbrica, a un corpo collettivo di cui si era parte distinta ma riconnessa, qui ognuno era richiamato alla sua singolarità, in qualche modo opposto agli altri: e questo lo faceva crescere.”


L'utopia non ha bagni di fissaggio

Il potere che può avere una singola immagine fotografica di distillare il mondo, marcando i giri di boa della storia e del costume di una società che cambia senza accorgersene, non ha più bisogno di essere dimostrato. Ma non è l'unico registro di lettura di un patrimonio fotografico. Ce ne sono altri, per esempio la collezione di fotografie. Le storie per immagini, che dispongono in sequenza immagini di varie epoche e autori, stabiliscono una tracciatura molto precisa del cammino di una società, dei suoi miti, delle sue prosperità e, assai efficacemente, delle sue difficoltà. Le immagini saldate le une alle altre diventano un affresco corale in divenire, misura del passo della storia, quasi un cinema lento. L'apporto originale del grande autore resta intatto ma viene collocato in una dimensione collettiva, inevitabilmente spinto a dialogare con altri autori e addirittura con autori anonimi.

Si prenda la Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980 pubblicata da De Donato in occasione dell'80° anniversario della nascita della FIOM. L'ascesa e la caduta della fabbrica diventa chiara, è tutta scritta in quelle foto. Negli anni intorno al primo conflitto gli impianti si ingigantiscono, le grandi navate rimpiccioliscono l'uomo, i reparti diventano razionali, si avverte l'entusiasmo di una pur tardiva rivoluzione industriale. Durante il ventennio fascista, lo sforzo per rendere moderno e ‘virile' l'apparato industriale passa anche attraverso la mobilitazione morale. Il progresso non è automatico, non bastano nuove architetture e nuove divise, le masse devono essere educate dentro. Ecco i motti alle pareti delle fabbriche (all'esterno ‘Credere Obbedire Combattere', all'interno ‘Duce tutto si fa con la tua passione' ma anche slogan meno politici come ‘Un posto per ogni cosa ogni cosa al suo posto' e ‘L'ordine rende il lavoro più proficuo, più sereno, più sicuro'). Ecco le foto di Mussolini e dei federali fascisti in visita alle fabbriche. Ecco operai dal volto canoviano in pose plastiche che propagandano la nobiltà del lavoro, espiantati da ogni possibile contesto.

Poi arrivano le bombe, le insurrezioni, la ricostruzione, l'emigrazione nelle fabbriche del nord, lo scontro sociale, il neorealismo che mostra volti emaciati con l'oggettività di un'indagine antropologica. Ai piani alti imprenditori, dirigenti e intellettuali lavorano per gettare le basi della moderna civiltà del progetto su cui si formeranno generazioni di studenti, tecnici, giornalisti, artisti e designer (solo per citare qualche nome Paolo Volponi e Franco Fortini a Ivrea, Vittorio Sereni, Albe Steiner, Bruno Munari e Giò Ponti a Milano, Leonardo Sinisgalli a Roma). Butta i suoi germogli anche l'utopia. Dalla consapevolezza di un approccio scientifico alla produzione Adriano Olivetti fa derivare forza spirituale e dinamismo. Nel 1952, in Società, Stato, Comunità - per una economia e politica comunitaria, scrive: “Questa natura della fabbrica quale organismo si manifesta nel continuo esercizio dello spirito di fantasia e di immaginazione […] nella spontanea negazione del principio che ad ogni istante debba intervenire un concetto esclusivo di calcolo economico.” Utopia rimasta tale, se è vero che nemmeno l'imprenditore Olvietti, il quale tanto fece per innovare l'architettura, il design e la comunicazione applicati all'industria, non sembra esser riuscito ad implementare il proprio pensiero nell'organizzazione del lavoro.

E infine la storia ancora calda, le catene di montaggio, il boom economico, i cartelli nei cortei dell'Autunno caldo, sarcastici e volentieri, anch'essi, utopici. Negli anni '70, grazie al sindacato, le fabbriche si aprono, i fotografi varcano i cancelli e cominciano a gettare un occhio tagliente sulla fabbrica, meno olografico. L'industria non è più di dominio esclusivo di pochi grandi firme, come era in passato con Patellani, i fotografi dello Studio Villani e pochi altri. Il ciclo si conclude a partire dagli anni '80, quando le speranze di una diversa partecipazione dell'uomo al meccanismo industriale si dissolvono in una nuvola di amarezza. Giulio Sapelli ha definito l'evoluzione del sistema industriale italiano, tutto volto a massimizzare il rendimento finanziario, una “modernizzazione bastarda”.

Dalle immagini si leva la stessa nota sorda e moncorde di sempre – la fatica di sostenere giornate sempre uguali, gesti sempre uguali, caso mai più lenti o più veloci, la burocrazia del tempo e della produzione, l'ansia da performance – solo che ora mettiamo a fuoco con maggior dettaglio la durezza degli effetti che essa comporta. Naturalmente ciò non impedisce alla “pianta umana” di attecchire nel mondo del lavoro. Ma la fotografia non mente: la fabbrica è il deserto della modernità opposto ai giardini del tempo libero, la sala macchine di un'intera società che aspira al benessere e che ha scelto – o è stata costretta a scegliere, a seconda del punto di vista politico da cui si consideri la questione – di pagare un prezzo elevato. Via via che l'orario si accorcia, che i sindacati ottengono garanzie e condizioni più adeguate, che si diffondono le Lambrette, poi le Cinquecento, poi le lavatrici e le televisioni, e infine quasi tutto il resto, la fabbrica si fa distante, isolata in una società sempre più dedita al loisir. I bisogni si infittiscono, e proprio una società adulta, per soddisfarli, spinge il pedale su una macchina per diversi aspetti primitiva, almeno in termini esistenziali. Una società che ha trasformato il sogno in merce di scambio e che fonda la propria ricchezza su luoghi che hanno abolito il sogno. Forse, la vera conquista è che oggi non ci si sente operai per tutta la vita. Forse.

Eugenio Alberti Schatz



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