[1/12/2009]
Antonio Barrese
NEL PAESE DEGLI OCCHI ACUMINATI
Riflessione ai piedi dell'Albero di luce di Antonio Barrese
Era l'albero del Sembar,
che risplendeva come un gioiello nell'oscurità.
Sopra ogni foglia, sopra ogni ramo era posata una lucciola.
E sotto l'albero, inondata di luce, c'era la mucca smarrita.
Leggenda indiana
Fa freddo, le vetture si muovono distratte come i passanti, e noi siamo alle pendici di questa costruzione immaginifica che con la sua gonna luminescente provoca a distanza l'impassibile Torre del Filarete, a Milano. I suoi coriandoli geometrici si riflettono nei vetri di un palazzo fine ottocento, il contrasto fra liquida moltitudine e il disegno severo delle cornici neoclassiche ci piace. Abbiamo appena bevuto al bar d'angolo un cocktail intitolato Albero di luce, che ci scalda il petto e ci muove a qualche timido tentativo di lettura. Timido, perché immaginiamo che Barrese sia diffidente verso letture critiche non oggettive. Faceva parte del suo lavoro artistico – ai tempi del MID, il gruppo di ricerca di cui è stato protagonista negli anni 1964-1972, e fedele custode della memoria in anni più recenti – spiegare il senso dell'opera, senza paura di essere didattici. L'artista era operatore, lo spettatore fruitore, e il critico serviva a poco, visto che quanto c'era da sapere lo dicevano gli operatori stessi alla fonte (infatti, non si è trovato un nome appropriato al critico, forse traduttore?). In realtà Dorfles, Eco, Vergine, Meneguzzo e tanti altri hanno colto gli aspetti cruciali, prendendo estremamente sul serio le scorribande di questi moschettieri della tecnica che producevano apparati per far giocare l'occhio e che molti anni prima dell'avvento del computer e delle interfacce avevano lavorato sull'ambiguità della percezione, sull'esperienza immersiva e ambientale, e avevano creduto nella forza del progetto e nel protagonismo del destinatario finale, ridimensionando la funzione dell'artista taumaturgo: infatti erano in quattro e si firmavano con una sigla... Eppure non riusciamo a placare il sospetto che per Barrese la critica migliore sia una tomografia a positroni positivi (PET) alla corteccia occipitale che misuri le variazioni di calore da zona a zona, alla ricerca dei “moduli” specializzati nel riconoscere le forme, i colori, i movimenti, tutte e tre le cose insieme… Immaginiamo che il suo sogno sia misurare il fattore di gradimento dell'opera, ove per gradimento si intenda il grado di complessità delle operazioni messe in atto dalla mente in funzione di una ricompensa effettivamente raggiunta [1].
Tutto intorno a loro s'intersecavano
gigantesche costruzioni metalliche,
travi di ferro di dimensioni sovrannaturali,
mentre le ali dei mulini quasi immobili
nella calma che seguiva la tempesta
passavano descrivendo immani curve scintillanti,
salendo lentamente fino a perdersi in un alone luminoso.
Herbert George Wells
La macchina. A differenza di tanti congegni del MID, questo Albero non interagisce, è uno spettacolo automatico, o una grande ruota lunare, o un'anemone elettrica, o un basilisco metafisico, o una geometria lisergica, o un bambù termonucleare, o una zip fra spazio e tempo, o un organo allucinatorio, o un'altalena sensoriale, o uno scheletro natalizio, o un albero della cuccagna o un calcinculo senza passeggeri, a seconda dell'umore di chi lo contempla. Il suo disegno è la tecnologia, i suoi colori sono la luce, il suo senso complessivo è il ruotare su stesso come un mappamondo. È latore di un lemma artistico in quanto oggetto tecnico che genera luce/movimento, e in questo si raccorda fedelmente alle ricerche giovanili di Barrese nell'alveo dell'arte cinetica [2]. Allora movimento e interazione con esso erano l'ultima frontiera. E oggi? È probabile che lo siano ancora, dato che non abbiamo ancora risolto i problemi sindacali e filosofici con le macchine che ci stanno intorno. L'Albero di luce è un'art machine che fa nascere un senso di meraviglia fanciullesca per l'ingegno umano applicato a un fine, per quanto questo fine non appartenga alla categoria della cosiddetta utilità. Le art machine sono prototipi che ricordano gli automi del settecento, o i robot dei film di fantascienza: sono crocevia di futuro e di passato, macchine del tempo in disuso. Hanno sovente un aspetto instabile, approssimativo, quel che conta è l'idea e il movimento, non la loro qualità, non diventeranno mai creature in serie come noi. Pensiamo alle figure pericolanti (e pencolanti) di Jean Tinguely, che si muovono a scatti e sembrano più incerte di quanto non lo siano veramente. Pensiamo a Jan Elzinga, artista ingenuo olandese [3] che lavorò trent'anni per realizzare il Giudizio di Salomone, un balletto meccanico le cui figurine si muovevano per 45 minuti con una sola carica (e che oggi gli ingegneri non riescono a riparare per la complessità). Pensiamo a Simon Lewandowski, che ha portato nella nostra città la sua strafottente ArtistMachine [4], un trabiccolo che disegnava, firmava e poi distruggeva le sue stesse opere, riempiendo giorno per giorno il salone rinascimentale che la ospitava con una montagna di striscioline bianche… Macchine inutili vuol dire eversive rispetto agli usi industriali: nessun conto economico, nessun design ergonomico, nessuna norma UNI o GOST da rispettare. Fra un'art machine e una macchina reale c'è lo stesso rapporto che fra un lupo e un cane addomesticato. Samuel Butler aveva applicato il pensiero darwinista alle macchine, sostenendo che evolvendosi avrebbero finito per prendere il sopravvento sull'uomo. Degli esseri umani scriveva: “Cosicché noi siamo tutti un solo animale, e la riproduzione e la morte sono fasi del processo consueto di consumo e riparazione che si svolge ogni giorno nei nostri corpi [5].” Ma se noi siamo tutti un solo animale, allora anche le macchine sono tutte una sola macchina. E sono tutte in lotta fra loro per decidere chi è la più forte. Le art machine sarebbero dunque – applicando questa ipotesi – come iguane goffe e renitenti all'evoluzione in un teatro competitivo che per qualche oscura ragione le ha risparmiate. Ogni art machine, nella sua superba inutilità, ci manda a dire: l'intento eversivo dell'arte può corrodere fino al cuore quella civiltà contemporanea che ci spinge a rotta di collo verso la diminuzione della fatica senza però poi sapere cosa fare del tempo liberato (e soprattutto dell'uomo liberato). Un'art machine, se vuole, è capace di mettere alla berlina il senso di reverenza che nutriamo verso la tecnologia, esortandoci a dare un senso al nostro ruolo di genitori delle macchine. Va detto però che quella di Barrese è un'art machine diversa dalle altre, pur mantenendo il tono di voce ironico tipico delle macchine inutili. Le art machine, dicevamo, si muovono come iguane, disperdono nell'aria un aroma di archeologia industriale. L'Albero di luce invece è denso di futuro [6], e non a caso chiude l'anno di celebrazioni che Milano ha dedicato al centenario del Manifesto futurista. È una macchina della visione, ossia una meccanizzazione di qualcosa che fatto a mano richiederebbe molto sforzo, e nessuno poi lo farebbe. È, perciò, stranamente utile, perché didattica e desiderosa di mostrare agli umani qualcosa di cui non si erano accorti. Vi è una concatenazione di ingranaggi complessi nei processi percettivi che mettiamo in modo quando siamo spettatori, la macchina ci mette nelle condizioni di ottimizzare le risorse. Come il binocolo che ci fa guardare più lontano (senza dover spostarsi a piedi fino a lì). Come un attrezzo ginnico per fare stretching del nervo ottico. E aiutare l'occhio ad essere ‘Occhio che vede dentro il suo vedere', secondo la felice espressione di Alfonso Gatto [7].
La culla oscilla sopra un abisso,
e il buon senso ci dice che la nostra esistenza
non è altro che una breve fenditura di luce
fra due eternità di tenebre.
Vladimir Nabokov
La sorgente. Immagini, informazioni: termini sovente preceduti dall'espressione ‘bombardati dalle'. Contro un bombardamento si può fare ben poco, le persone che hanno vissuto attacchi dal cielo possono confermarlo: si resta attoniti, vuoti, senza punti cardinali. Che fare? La disoggettivazione operata dalle avanguardie storiche – che rese di colpo obsoleto ogni linguaggio accademico, scaraventando alla luce l'uomo nuovo dell'arte – oggi acquista un significato terapeutico e di rinforzo delle difese immunitarie. Malevich, forse il teorico più lucido della necessità di emanciparsi radicalmente dall'idea copiativa dell'arte, scriveva: “Io voglio dire che non tutto è così semplice ciò che sembra semplice [8]." Perdersi in un dipinto monocromo a Villa Panza di Biumo assaporando il dolce naufragio dell'occhio, vuol dire ergere una barriera contro il dilagare di immagini infestanti, triviali, senza origine e senza aura. Se si superano i primi istanti di spaesamento, il battito rallenta, le ansie si assorbono. Una distesa di un solo colore è come un siero Sclavo per arginare i veleni dell'inquinamento culturale. Non è che succeda molto le prime volte, si tratta di educare i sensi a fare altro. Ma poi di queste pause salubri non se ne può più fare a meno. Ecco, siamo convinti che un quadro monocromo o similare sta alla tradizione accademica come l'arte cinetica di Barrese sta al fiume sporco delle immagini sganciate nella noosfera dai B-52 dei conglomerati mediatici. Sono entrambi esempi di risalita della corrente alla ricerca degli elementi primigenii non ancora manipolati. L'Albero non è cinema, non è televisione, non è luna park, riusciamo grazie a esso a ricostruire la progressione dal semplice al complesso. Prove tecniche di consapevolezza della visione. L'autore ci sta prendendo sottobraccio e ci sussurra: “Vedi, l'occhio realizza appieno la propria natura nella ricognizione di eventi semplici. Intensità e autenticità non hanno bisogno d'altro.” Per chi vuole vederla, vi è poi – in questa scarnificazione – un accostarsi alla metafisica. (Grazie a Lucio Fontana abbiamo capito che il divino e l'oscuro e il cosmo possono annidarsi anche a un centimetro dietro la tela.) Nel suo astrattismo fisiologico, l'Albero sprigiona un'energia considerevole, è una leva che se non si pone attenzione potrebbe rovesciare lo spettatore, la città, l'universo … In tema di narrazioni rovesciate, è giusto ricordare il brano per orchestra Punkte (versione rivista nel 1966) di Karlheinz Stockhausen, in cui per statuto i suoni devono essere intesi come materiali interstiziali e i ‘veri' suoni sono invece le pause. Semplice inversione del polo positivo e negativo. Emozione fortissima nel riprogrammare l'ascolto in questa direzione. Détournement assoluto. Esempio efficace di quanto i telai percettivi possano rovesciare il mondo. Stockhausen scriveva: “Perché intendere la musica sempre e solo come una struttura di suoni in uno spazio vuoto, o di note nere su di un foglio bianco? Non sarebbe possibile, altrettanto a ragione, prender le mosse, in senso lato, da uno spazio sonoro omogeneamente riempito e aprire la musica, cancellare figure e forme musicali [9] ?”
Ora vi ascolto vasti organi
di canne inebriate di musica
poiché la punta d'argento tremulo
d'uno scarpino di stella nell'acqua
preme il vostro profondo pedale di vento.
Filippo Tommaso Marinetti
La vertigine. Prendiamo uno dei tanti dispositivi ottici realizzati dal MID, uno fra tanti, non uno in particolare. Ci imbatteremo probabilmente in una componente ricorrente: il rischio. Perché l'occhio è condotto ad avventurarsi su di un terreno nuovo, in cui le modalità comuni del guardare vengono sovvertite. Dall'azione di una luce stroboscopica, per esempio, nel momento stesso in cui l'osservatore sente di entrare nell'area di influenza di leggi ottiche sconosciute, contro le quali a nulla serve resistere, può scaturire un senso di vertigine: la paura di sporgersi oltre il parapetto della percezione, la paura di cadere. Una delle reazioni più frequenti è infatti distogliere lo sguardo, fare un passo indietro. Nell'Albero di luce, ritroviamo questa vertigine [10] applicata alla sua dimensione naturale: l'altezza (quel semplice dato numerico per cui un'azione semplice come camminare su un cavo d'acciaio cambia natura se il filo è separato da terra da 30 centimetri oppure dalla mole delle Torri gemelle del World Trade Center [11] ). L'altezza porta con sé l'invito implicito a una prova d'iniziazione – che sia con il corpo, lanciandosi con la corda in un salto di bungee jumping, o solo con la fantasia poco importa. I nostri neuroni specchio, infatti, si attivano in automatico e ci inducono all'esperienza dell'altezza anche senza compiere il corrispondente gesto fisico [12]. Inclinare il capo verso l'alto è già un gesto che ci pone nel dominio delle cose non ordinarie. L'altezza della struttura dell'Albero ci sovrasta, è insolita, preme sulla fronte come la colonna di una cattedrale gotica vista dal basso. La teatralità di questo totem cinetico è una lezione di cautela. Siate cauti, ci dice. State attenti, umani, c'è ancora molto da imparare. Il senso di aver già visto tutto e di sapere già tutto è illusorio, è solo una comoda depressione di stagione. C'è ancora molto da fare, da scoprire, da meravigliarsi. È dunque un manifesto di incoraggiamento, un colpo di flipper alle biglie d'acciaio perennemente attratte dall'inerzia. Un antidoto alla saturazione.
Il Sole – al lavoro.
Filippo Tommaso Marinetti
La ricetta dell'Albero di luce [13]. 1/5 di succo di limone, 1/5 di gin e 2/5 di succo d'arancia. Shakerare. Versare l'ultimo quinto di spumante italiano e spruzzare con sciroppo di fragola. Guarnire con foglie di mentuccia fresca, una fragola e una fettina d'arancia.
Eugenio Alberti Schatz
NOTE
[1] Semir Zeki, specialista di neuroanatomia, è considerato il padre della neuroestetica, quella disciplina che cerca di dare un fondamento funzionale all'analisi dei processi della percezione degli oggetti artistici, resa possibile dall'evoluzione delle tecnologie non invasive che scrutano la mente. Forse non a caso l'articolo considerato la pietra miliare di questi studi si intitola ‘The Neurology of Kinetic Art' (in Brain, 1994, 117) e cita, fra gli altri, Calder, Duchamp e Riley. Zeki è stato fra i primi ad applicare la risonanza magnetica in questo campo di studi, fino ad allora terreno esclusivo di caccia delle scienze umane. Zeki afferma che l'artista è un ‘neurologo sui generis', intendendo dire probabilmente che deve considerare i meccanismi della percezione come risorse per la sua creatività.
[2] “Da considerazioni di questo tipo nasce l'idea della centralità della tecnica e della sua non fungibilità. Pensiamo che la vera avanguardia sia quella di un'arte basata non sull'impiego strumentale della tecnica, ma sul suo incessante approfondimento. (…) Vorremmo un'incessante avanguardia, un perenne guardare avanti.”, in MID - Dall'arte programmata all'arte interattiva, di Antonio Barrese e Alberto Marangoni, Milano 2007, pag.180. Il passo citato si riferisce a Immagini sintetiche, mostra al CIFE-Ferrania tenutasi nel 1969.
[3] L'opera si trova al Museo Martena di Fraeneker, nella regione della Frisia. La città, sede di un'importante università, non era nuova ai personaggi eccentrici e portati nelle scienze meccaniche. Eise Eisinga (1744-1828) era un cardatore di lana, studioso autodidatta di matematica e astronomia. Costruì nella propria casa un planetario usando gli stessi meccanismi a ruote dentate in legno che gli servivano per lavorare la lana: questo planetario è tutt'ora in funzione ed è considerato il più antico planetario al mondo.
[4] “Come ogni artista ha infinite esigenze, e la sua patetica dipendenza dagli altri resta costante per tutta la sua esistenza. Diversamente dalla maggior parte degli artisti, ha però la decenza di smaltire ciò che produce prima che le generazioni future si trovino a dover escogitare che farsene.”, Simon Lewandowski, in Crimes of Futility No.9 - The ArtistMachine Reconstitued: a Philosophical Engine with User's Manual, catalogo della mostra, Mediateca Santa Teresa, Milano giugno 2006.
[5] In ‘The Book of the Machines', Erewhon, pubblicato anonimo nel 1872.
[6] “Di fronte a un'immagine, infine, dobbiamo riconoscere con umiltà che essa probabilmente ci sopravvivrà, che siamo noi l'elemento fragile, passeggero, e che è l'immagine l'elemento futuro, l'elemento della durata. L'immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda.”, in Georges Didi-Huberman, Storia dell'arte e anacronismo delle immagini, Torino 2007.
[7] Alfonso Gatto, Occhio che vede dentro il suo vedere, presentazione all'Opera completa di Cézanne, Classici dell'arte Rizzoli, Milano 1970, pp. 5-8, citato da Elisabetta Longari in Il corpo dell'evidenza, testo nel catalogo della mostra di Seán Shanahan alla Kunst-Station, Sankt Peter Köln, 2008.
[8] Kazimir Malevich, ‘Vystavka Professional'novo soyuzakhudozhnikov-zhivopistzev. Levaja federatzija (molodaja fraktzija)', rivista Anarkhija no. 89, dalle Opere complete, vol. 1, pag. 120, Mosca 1995.
[9] A questa domanda, nel programma di sala del concerto, tenutosi nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano il 17 dicembre 1981 per il ciclo ‘Musica nel nostro tempo', Luigi Ferrari rispondeva così: “Ecco dunque il compositore dedicarsi all'elaborazione di formule negative (la terminologia è ripresa da Plus-Minus), costituite da veri e propri ‘buchi' scavati nelle pareti compatte del suono, in diverse forme e dimensioni, a mutarne la trasparenza. La ‘figura' di ogni formula negativa è così determinata dai bordi o confini del buco: isola di ‘antimateria' calata nell'ambiguità di un universo cui è venuta a mancare la dicotomia fondamentale.”
[10] Vertigine che si trova anche in altre esperienze visive senza fondo, in cui vengono sottratti gli appoggi consueti alla griglia dello sguardo, per esempio il gorgo di svariati minuti di effetti speciali alla fine del film di Stanley Kubrick 2001 Odissea nello spazio, quando l'astronauta David Bowman pronuncia il suo celebre ultimo messaggio: “È cavo... all'infinito... e...Oh! mio Dio! È pieno di stelle!”
[11] “I primissimi passi potrebbero esser fatti su un filo corto, teso a tre centimetri da terra. Ma allora è meglio chiudere questo libro e diventare funamboli da salotto.”, in Philippe Petit, Trattato di funambolismo, Milano 1999. Il 7 agosto 1974 Petit, in occasione di una performance clandestina, camminò su un cavo d'acciaio teso fra le Torri gemelle del World Trade Center di New York, a 417 metri d'altezza. Poeta del vuoto sotto di sé, o, secondo le parole di Werner Herzog, ‘Conquistador dell'Inutile'.
[12] Negli anni '90 il neurofisiologo Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi all'Università di Parma hanno scoperto l'esistenza dei neuroni specchio, particolari neuroni di tipo sensorio-motorio dotati della sorprendente proprietà di attivarsi sia quando noi stessi compiamo un'azione, sia quando sono altri a compierla. Grazie a loro siamo in grado di comprendere il significato di un'azione intenzionale prima che intervenga il pensiero concettuale e linguistico. La prova sperimentale si ricavò da una scimmia i cui neuroni ‘sparavano' ogni volta che vedeva un uomo portarsi alla bocca una nocciolina, e restavano quieti quando l'uomo dirigeva la nocciolina verso la spalla. Le conseguenze di questa scoperta hanno una portata incalcolabile: il nostro cervello può essere coinvolto empaticamente, oltre che da azioni realmente attuate, anche da azioni solo rappresentate, come avviene nel caso dell'arte.
[13] Il cocktail che porta questo nome è una creazione di Francesco Lentini, il patron del Bar Castello di Milano, in omaggio all'Albero di luce originale.
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