Otto tesi provvisorie per Alvaro
I.
Bisognerebbe sapere se la realtà
appartiene al genere fantastico o al genere realistico.
“Il fantastico è l'esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale.” Difficile trovare una definizione migliore di quella di Tzvetan Todorov [1]. Eppure ci aveva provato trentacinque anni prima Sergio Solmi [2]. Sosteneva che per rendere credibile l'incredibile ci deve essere un contrappeso di realtà. E chiamava ad esempio le
Mille e una notte, in cui vedeva una “commistione di elementi realistici e fiabeschi” e una “pacata immaginazione orientale”, a cui si contrappongono i fantasmi dell'Occidente: inesplicate volontà superiori sotto forma di “casualità irremovibili, fatalità dei ritardi, smarrimenti del labirinto”. Questa mescolanza si ritrova nel gioco di specchi fra realtà e sogno che sta alla base della scrittura di Kafka, Borges e Kish, solo per citare le punte. Ebbene, il fantastico ha una costante nella storia della nostra cultura: non si stanca di riaffiorare qui e là, in tempi e luoghi sufficientemente imperscrutabili, secondo un apparente capriccio. Il senso del fantastico è un sapore nitido, una nostalgia di qualcosa che si pensa di non conoscere, di giochi fatti riassemblando pezzi di passato con pezzi di futuro o pezzi di natura con pezzi di tecnologia, di cose normali che diventano straordinarie e di cose straordinarie che diventano quotidiane. Scorrendo la produzione di tele e disegni di Alvaro nel corso dei decenni, la nota fantastica è corposa, avvolgente e persistente.
II.
L'arte vuol sempre irrealtà visibili.
Fra tutti i nomi che si possono attribuire agli abitanti delle opere di Alvaro, ce n'è uno soltanto che potrebbe accontentare tutti: organismi. Non sappiamo se organici o fossili, di origine umana o sconosciuta, se di metallo o di legno dipinto come stampi per cacciatori, macchine figlie di macchine o creature allevate da un padre e una madre. Queste
entità assumono forme diverse, non parlano la nostra lingua, e poi non sempre sono ritratte a figura intera, talvolta a campeggiare nello spazio sono solo dettagli, snodi di livello inferiore. Ci ricordano alcune tavole per la pubblicità di Boris Artzybasheff (1899-1965) [3], russo bianco sbarcato in America con 14 cent in tasca e poi diventato originalissimo e acclamato illustratore (firmò oltre 200 copertine per Time): macchine antropizzate, motori con mani, braccia ,volto ed espressioni umane. O i ‘siloni' della serie televisiva
Battlestar Galactica, popolo di macchine indistinguibili dagli umani, che si autoriprogrammano e in taluni casi nemmeno sanno di essere siloni. Ma le stesse entità possono anche essere mappe di civiltà sepolte dall'acqua o scorci di città costellate di segni contemporanei, o viste verticali dal sottosuolo, attraverso la grata di un seminterrato ingombro di macerie, in quartieri governati da forze ostili. Il paesaggio urbano diventa fabbrica, poi campo di guerra, poi
shopping mall, e infine approda alla science fiction. Le fabbriche storiche sono sparite, ma solo per comodità degli assetti produttivi: in realtà le fabbriche dismesse si sono disciolte dentro noi, e i protocolli di relazione sono gli stessi per noi e per le macchine. La nostra vocazione (il
drive primario) sembra essere la connessione, precondizione di sofisticati processi di autoregolazione della società. Dietro quell'aura apollinea di cui è impregnata la galleria di mondi creati da Alvaro, il conflitto è in agguato. E basta una scintilla per trasformarla in una guerra di mondi.
III.
Il ritmo è il respiro della poesia;
è molto più importante delle immagini
o delle idee, evidentemente.
Le tele di Alvaro rilasciano un effetto di
pieno, ossia di densità degli elementi compositivi. Lo sfondo ha un ruolo ancillare (è appunto uno sfondo, un registro di secondo livello), e la sua estensione non è mai prevaricante rispetto alle forme che contiene. Lo spazio è prezioso, perché sprecarlo? Una possibile spiegazione di questo fenomeno è che ogni opera abbia una doppia vita, una missione in incognito. Da una parte esistere come unità a sé, incorniciata, isolata sul muro bianco o placidamente disposta accanto ad altri quadri. Dall'altra essere parte di un'unica immensa sterminata quadreria in cui trovano cittadinanza tutte le creature di Alvaro, anello di una sequenza aperta di variazioni sul tema e frutto di infaticabile
Ars combinatoria (non a caso la predilezione di supporti con dimensioni seriali, per esempio i fasci di carta a mano indiana e le tovagliette di carta alimentare riciclata), un inventario del mondo che ricorda la foga tassonomica dei Romani per il territorio. Se le cose stessero così, potremmo spiegare quel senso di incanto musicale, di ritmo che lega ogni lavoro a quello successivo e a quello precedente. La memoria dei passi non si perde, ogni opera diventa profezia di quella successiva. C'è dunque una cadenza, un legato, ogni quadro forma un
quadro di quadri, e via di seguito verso l'alto, verso una scala macro fatta di quadri di quadri di quadri… Ne risulta un incedere maestoso, pacato, a tratti solenne, le cui accelerazioni e distensioni non affievoliscono la partitura complessiva. Il ritmo è anche garanzia di non caduta nell'ossessione e nella ripetizione, problema con cui prima o poi ogni artista deve fare i conti. Demetrio Paparoni [4], scrivendo dell'americano Peter Halley, cita uno scritto di Mario Merz del 1968, che a sua volta cita il generale vietnamita Giap: “Se il nemico si concentra, perde terreno. Se si disperde, perde forza.” Alvaro, come Halley – che era partito dalle sagome dei contatori elettrici come emblema di controllo sociale e fino ad oggi è rimasto nei paraggi – non è di quelli che cambiano rotta. Alvaro ha svolto il suo tema senza mai uscire dal cerchio, come i viaggiatori in una stanza.
IV.
El universo es fluido y cambiante,
el lenguaje rigido.
Critici di vaglia hanno analizzato il lavoro di Alvaro, cogliendone aspetti nodali e suggerendo letture difficilmente controvertibili. Hanno parlato di “nuova ecologia fatta di lucide superfici plastiche” (Giorgio Seveso, 1979); di “immagini mutanti del nostro
sentimento del tempo” (Miklos N. Varga, 1982); di “strumento che produce pura intensità, puro desiderio” (Giorgio Verzotti, 1983); di “una certa formazione di tipo mediterraneo con delle istanze di tipo mitteleuropeo” (Carmelo Strano, 1983); di “teatro complesso” (Luciano Caramel, 1986); di “terapia che l'artista offre per curare la malata civiltà informatica” (Lucio Barbera, 1989); di “forme allusive al mondo organico come a un immaginario geometrico comunque
contaminato” (Alberto Veca, 1992); di “lingua della voluttà in climi desertici” (Domenico Cara, 1992); di “forme della materia mentale della città di Messina” (Giorgio Taborelli, 1992): di “vitalità olimpica dell'astrazione nel generare linea da linea, forma da forma” (Tommaso Trini, 1995); di “geometria che nega se stessa” (Gaetano Delli Santi, 1999); di ‘
narrazione dell'altrove' (Evelina Schtaz, 2006) e infine di “materia che cambia di segno sotto i nostri occhi” (Angela Manganaro, 2007). Via via che Alvaro consuma la linea della sua ricerca artistica, lo spazio per dire oltre sembra assottigliarsi. Viene da interrogarsi, allargando il discorso al quadro generale, se oggi la critica delle immagini non rischi di essere un esercizio anemico, come una partita di polo fra inglesi e argentini. Abbiamo così tanta cultura visiva incapsulata nella retina sin dalla nascita, e così tanti stimoli, e link… Senza nulla togliere al lavoro di istituzioni, critici e galleristi, si avverte un premere alle porte di nuove possibilità per l'interpretazione e la diffusione del lavoro d'arte, possibilità in cui lo spettatore sia chiamato a svolgere un ruolo meno supino, o fors'anche in cui i giudizi critici si formino dal basso, per interazione
peer-to-peer. Chissà. In ogni caso, il rischio è compensato dal piacere. Non bisogna chiedere il permesso a nessuno, e anzi l'opera di Alvaro lo consente, quasi invita a farlo: si fa avvicinare senza mediazioni, è ammiccante, ospitale, diretta, e agganciata con solide cinghie di trasmissione alle sfere della gioia e dell'armonia. Basta posare l'occhio.
V.
Il lavoro creativo è sospeso
fra la memoria e l'oblio.
Ci sarebbe anche un altro modo di guardare i quadri di Alvaro, un modo che non passa attraverso l'occhio. Gaston Bachelard diceva che l'immaginazione non è la formazione delle immagini, bensì la loro deformazione. In un certo senso, la memoria è l'esaltazione dell'errore di parallasse, ossia la sensazione di spostamento dell'oggetto che si osserva allo spostamento dell'osservatore. La memoria è un'interessante lente deformante. La terribile legge della sua limitatezza – si sa in anticipo che non tutti potranno essere traghettati all'altra riva – consacra il diritto del più forte. Ricordare non è un metodo analitico bensì dialettico e conflittuale, nei circuiti neuronali si svolgono scontri epici per emergere dal Lete. E può capitare che sul lungo periodo abbiano la meglio immagini che non godevano di pronostici favorevoli. In ogni caso, la tecnica del ricordare a memoria le immagini è un esercizio che suggeriamo caldamente. Di recente, lasciandoci andare al dormiveglia, siamo riusciti a recuperare un dettaglio tutt'altro che secondario nell'iconografia di Alvaro: il chicco di caffè. Per un periodo piuttosto prolungato negli anni '70 e '80, Alvaro ha disseminato le tele di sagome di chicchi di varie dimensioni disposti in verticale: due valve nere che si guardano, separate da una riga vuota in mezzo. È un simbolo di concordia, di orientamento comune: i due emisferi si guardano, si parlano, e con ogni probabilità rappresentano l'uomo e la donna delle primigenie mezze sfere platoniche. Le due valve dialoganti sono un segno latente: si pensi al grattacielo Pirelli di Gio Ponti, a Milano, la sua sezione può ricordare un chicco di caffè molto allungato. Gli architetti del nuovo palazzo di Regione Lombardia hanno detto di aver voluto rendere omaggio al progenitore, prendendo le due valve e ruotandole al contrario nel nuovo disegno (da concave a convesse). Così oggi, il
landmark verticale della città si compone di due individui che si danno la schiena. Tornando al chicco, ne abbiamo intercettato uno in un quadro di Fernand Léger del 1925, recentemente battuto all'asta per oltre 2,3 milioni di dollari, dal titolo
Rose et compas. Proprio al centro del quadro fa capolino un enigmatico chicco di caffè gigante. Non crediamo sia lì per caso ma per un legame forte fra i due pittori. L'anno prima Léger aveva girato con l'aiuto di Man Ray il film
Ballet mécanique, e prima ancora aveva fatto cinema con Abel Gance. Dal cinema aveva importato la tecnica del primo piano, che conferisce monumentalità alle sue composizioni in pittura. Cinema, monumentalità (e anche corpi tozzi) che si ritrovano in Alvaro. Solo che il maestro francese, dopo una giovinezza sulle barricate del modernismo e il geniale periodo cubista, è tornato sui propri passi, recuperando la figura. Alvaro, invece, è rimasto fedele al progetto originario.
VI.
La letteratura è un sogno guidato.
La percezione di monumentalità, per quanto imperiosa, non sfocia tuttavia in una plasticità da bassorilievo romano. Per quale ragione? La riposta, proseguendo con la tecnica dell'anamnesi bachelardiana, è semplice: il volo. Pur essendo appoggiate su fondi cromatici densi come mari di latte, le forme di Alvaro si librano nell'aria. Sono inaspettatamente agili, come certi grassoni in discoteca. Sono sospese e libere di spostarsi, reagendo ai minimi aliti di vento. Il loro volo è lento come quello di un calabrone, che sembra sia sempre sul punto di cadere (e infatti gli scienziati non si spiegano come riescano a volare a velocità così basse, ma loro volano lo stesso). Ed è lento come quello di un dirigibile che pattuglia un confine misterioso. Calabrone = insetto di grandi dimensioni. Dirigibile = aeromobile di grandi dimensioni. L'equazione è presto risolta. Lentamente, eppur si muove. Questo
effetto fisico genera un effetto collaterale prezioso: la sospensione del tempo, l'attesa di un evento imminente, un borborigma di fondo di scritture indecifrate e nodi indecifrabili… Mentre eravamo intenti ad accompagnare con lo sguardo le curve sinuose, mentre ci immaginavamo decolli e atteraggi, eccoci inavvertitamente in volo anche noi. (Ricordo di un articolo letto in una rivista americana degli anni '70 che descriveva un metodo per imparare a volare in sogno, come virare a destra, a sinistra, come fare una capriola…) Destinazione oltre le cose tangibili, nel regno delle cose solo intuibili e non per questo meno vere, in cui il tempo esplode facendo rimbalzare suoni sordi, sirene di allarme e subito dopo di cessato allarme, in quel regno così a noi familiare scoperto dal talento dei due fratelli greci con diverso cognome. Destinazione
meta ta fusika.
VII.
Il mare è un antico idioma
che non riesco a decifrare.
James Hillman [5] sostiene che l'
intima qualità del luogo è dovuta sia alla percezione del clima e della geografia, sia all'immaginazione. Questa qualità interiore inoltre, sarebbe una
memoria inscritta nel mondo. Dimostrazione ne sarebbe il modo con cui gli antichi Greci sceglievano dove erigere i templi. E anche, più vicina a noi, la vicenda di Fort Worth e Dallas, in Texas, due città a 50 chilometri di distanza, città di allevatori la prima, polo industriale la seconda. Eppure è stata la prima a diventare una piazza di riferimento per l'arte, sede del museo di Louis Kahn: secondo Hillman, perché scorreva sangue a fiumi nei macelli, generando una relazione diversa con il sangue. Della sicilianità di Alvaro poco possiamo aggiungere, tanto plateale e non rimossa si presenta nel lavoro e nella persona. Si dovrebbe piuttosto parlare della sicilianità del mondo. E capire, come ben sanno i siciliani, che c'è anche molto Nord e molta durezza nella loro coscienza di cittadini del mondo. Una cosa, tuttavia, ci sentiamo di aggiungere: il tema di Messina e della lingua di mare su cui si affaccia, lo Stretto. È un luogo di giunzione di civiltà, il fulcro con cui una grande isola si incardina al continente, richiamando come una Sirena gli abitanti dell'altra riva. È cosa nota che le famiglie borghesi di Reggio mandavano i figli a studiare all'Università di Messina, e spesso ci andavano per fare compere. Siamo nell'occhio del ciclone, nel luogo di passaggio per definizione, in cui ogni cosa fluttua ed è transiente, sia in senso tettonico e geologico che filosofico e culturale. Messina è la prova generale di un nonluogo contemporaneo, capace di riconfigurare identità e storie a ogni giro di vite. A proposito di storie, se passate da Alvaro in studio, fatevele raccontare: l'
allegra brigata di Tindari, cantata da Salvatore Quasimodo e di cui suo padre Ottavio era parte; il nonno medico Eugenio, che affrontava a mani nude lo scempio delle vittime del terremoto; il giovane scienziato russo Sergej Tchakhotine, che resuscitava dopo essere rimasto sepolto vivo dalle macerie; e poi la Milano elettrica degli anni Sessanta vista da un giovane affamato di vita, la cucina delle sorelle Pirovini dove capitava di pranzare accanto alla Callas; e l'amato cugino scrittore Eugenio Vitarelli, tagliente come un rasoio nella prosa e burbero con i colleghi letterati, così come lo era Martino Mazzoleni con i colleghi artisti… Il tempo scorrerà senza coscienza del tempo. La Sicilia è una tradizione orale. (Se si vuole che nascano ancora pittori come Alvaro, forse non bisognerebbe costruire il Ponte di cemento sullo stretto.)
VIII.
La vita stessa è una citazione.
Ha scritto ad Alvaro Giorgio Taborelli [6], “L'opera d'arte è sempre una tesi di mondo possibile, data un'ipotesi costituita dai materiali di cui l'artista si serve.” Ma quale tesi? E se fossero più d'una le tesi di mondi possibili? L'arte è il luogo in cui le generalizzazioni soccombono a favore dei labirinti. La forza del labirinto è quella di opporre resistenza all'inizio contro l'intrusione, ma poi – alle forze amiche – offrire una via d'uscita. Quando sei sul punto di desistere, il labirinto ti salva (lo si capisce dopo, naturalmente). La figura dello Stalker, la guida che nel film di Andrei Tarkovskij accompagna lo scienziato e l'intellettuale nella Zona senza nulla chiedere per sé, è perciò una metafora perfetta della condizione d'artista [7], alle prese con leggi e mondi di cui non sono chiare le finalità ma al cui richiamo è impossibile resistere. (Forse ricorderete che nella Zona non si può mai ripercorrere a ritroso un tragitto.) Ancora Borges: “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.” Potrebbe essere così. Oppure, potrebbe anche essere che attraverso l'intera sua opera Alvaro non abbia mai smesso di cimentarsi in un unico progetto, il solo che gli stia veramente a cuore: l'autoritratto del mondo.
Eugenio Alberti Schatz
Congedo
Tutte le epigrafi in corsivo sono di Jorge Luis Borges. Il lettore ci perdoni se abbiamo invertito la consecutio temporale fra Solmi e Todorov, Léger e Alvaro, ma così è più divertente. Grazie Alvaro per aver lasciato la banca in tempo, per aver viaggiato anche fuori dalla stanza accompagnando Adriana e per tutto il resto che tu sai.
Note
[1] Tzvetan Todorov,
La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 2000.
[2] Sergio Solmi,
Appunti sulla letteratura fantastica, Opere complete vol. V, Adelphi, Milano, 2000.
[3]) Selezione di immagini su www.americanartarchives.com.
[4] Peter Halley,
Works for projects, a cura di Demetrio Paparoni, catalogo della mostra alla Galleria In Arco, Torino, 2008.
[5] James Hillman,
L'anima dei luoghi, Rizzoli, Milano, 2004.
[6] Giorgio Taborelli, ‘Lettera per Alvaro', in
Incognite / nero segreto, catalogo della mostra, Galleria Vismara, Milano, febbraio 1982.
[7] Alessandro Riva,
Stalker di Andrej Tarkovskij - Una metafora della condizione d'artista, relazione, Incontri Psicoanalisi e Cinema, Venezia, 3 aprile 1996.