[24/3/2011]
Mario Pischedda
Cinque passi verso il delirio di Mario Pischedda, più uno
1. Collyer, una sindrome contemporanea. La sindrome dei fratelli Collyer, o disposofia, è il nome del disturbo patologico che porta ad accumulare cose senza mai usarle o buttarle. Nel 1947 una telefonata anonima avvisò la polizia di New York che nell'abitazione dei fratelli Homer e Langley Collyer c'era un morto. La polizia si trovò di fronte, oltre ai due cadaveri marciti, una scenografia dantesca di rifiuti, escrementi, trappole contro gli intrusi, pile di oggetti rotti, inutili e senza senso. Non si riusciva a camminare, un fortino per inabissarsi lontano dal mondo, un'eclissi dell'essere umano per estrusione delle cose. E.L. Doctorow ci ha scritto un romanzo, dal titolo Homer e Langley (Random House, 2009). I due fratelli avevano studiato alla Columbia University, Homer diritto di navigazione e Langley ingegneria. Langley suonava il piano e portava i capelli lunghi per darsi un tono. Aveva inventato una macchina per aspirare la polvere da dentro i pianoforti e una Ford modello T per produrre elettricità. Entrambi vivevano nella casa del padre, che era scappato di casa, ed erano conosciuti nel quartiere (allora prestigioso) come due eccentrici, sebbene nessuno avesse mai potuto immaginare di quale inferno oggettuale fossero capaci quei due. Gli fa eco in Europa la storia del notaio Antoine-Marie Henri Boulard, raccontata magistralmente da Roberto Roversi in un libretto dal titolo Spaventoso rombo e notturna devastazione nella grande città di Parigi 1808 (Zanetto editore, 1998). Roversi racconta gli ultimi istanti di vita di un bibliofilo folle che porta a casa l'ennesimo volume di una biblioteca di 800mila, e con essa – come la mentina dei Monthy Pyton – determina il collasso strutturale della casa borghese in cui risiede. L'implosione produce un fumo bianco di polvere di pietra e carta in anticipo sulle Torri Gemelle. La compulsività è legata all'elemento quantitativo, che è sempre una nota oscura, minacciosa, anonima, contrapposta alla solarità dell'elemento qualitativo, selettivo, decantato, eccellente. Qualità e quantità – lo ying e lo yang dell'arte – fanno a braccio di ferro dalla notte dei tempi. I grandi dell'arte hanno prodotto migliaia di immagini alzandosi alle sei del mattino come Tiziano, o scritto decine di migliaia di pagine, come Tolstoj (a proposito di Pischedda, Roberto Clemente mi suggerisce anche l'iperattività di Mario Schifano). Il rapporto fra le due facce della produzione artistica è evidentemente più complesso di quanto non siamo propensi a ritenere. In un'età di artisti pigri e concettuali, che hanno paura di produrre nel dubbio che non tutto quello che esce dalla loro bottega abbia in dotazione un senso forte, va premiato chi invece osa buttarsi a capofitto nell'abisso, senza attendere l'esito delle operazioni. Mario Pischedda è un produttore di immagini generoso, al limite della compulsività. Il disordine dei suoi archivi potrebbe far pensare ai fratelli Collyer, ma non è voracità la sua, non c'è attaccamento morboso alle opere, al contrario c'è un distacco, c'è un senso del fluire del lavoro che non si deve mai fermare. Il nocciolo della questione è che Mario Pischedda ci sfida proprio sul crinale dell'opposizione insanata (ma sanabile) fra quantità e qualità: molte sue immagini sono belle, e in un flusso potente ognuno può trova il proprio bello fra le pieghe del discorso. E poi Pischedda è spiazzante: lavora anche sulla riduzione, scegliendo fra dieci solo l'immagine che lo convince, delle volte mette fuori la macchina fotografica dal finestrino dell'auto e mitraglia il paesaggio con il dito schiacciato sopra il pulsante che scatta (e sceglie di mostrarne dieci di fila, come un film a fotogrammi congelati), altre volte è capace di scattare immagini per un giorno intero fino a cogliere il blink esatto della luce del faro mentre gira e colpisce l'obiettivo con il taglio voluto (uno se centomila). Qualità e quantità forse non sono nemiche. Affrontare a viso aperto la quantità vuol dire anche non temere la complessità, fiduciosi che fra le sue titaniche onde si crei un piccolo tubo accogliente, al cui interno surfare tranquillamente e con grande soddisfazione dei sensi.
2. Morselli, il giorno dopo. Se la letteratura italiana è una provincia, Guido Morselli ne è il filosofo in esilio residente. [Si vide rifiutare in vita tutti quei manoscritti che a un anno dal suicidio, nel 1973, cominciarono a uscire placidamente per Adelphi e a essere finalmente osannati. Può ricordare Stanley Kubrick, quasi ogni sua opera si candidava a capostipite di un genere nuovissimo, o almeno la rivisitazione di un genere: con Roma senza papa e Contro passato-prossimo fece scattare uno scambio dei binari, attivando un'ucronia, cioè una geometria non euclidea della storia (come fece Philip Dick con La svastica sul sole del 1962); con Un dramma borghese si occupò di incesto padre-figlia (come fece Vladimir Nabokov con Lolita del 1955); con Il comunista raccontò la crisi dell'organizzazione politica ben prima del suo svolgimento storico (fu scritto nell'immediato dopoguerra); con Divertimento 1889 si tolse lo sfizio di prendere in giro i reali (ben prima di Alan Bennett).] Fu il mio amico olandese Roland Fagel, venticinque anni fa, a farmelo scoprire attraverso Dissipatio H.G., il suo ultimo romanzo (le due consonanti stanno per humani generis). La trama è presto detta: l'io narrante decide di darsi la morte in una caverna ma poi desiste e ritorna al consesso degli umani, salvo poi scoprire che è rimasto l'ultimo custode di un mondo congelato in cui agiscono solo animali, cose e macchine. Crisalide, controfigura di Zurigo, è un tetro deserto museale, un archivio a cielo aperto di una civiltà orfana di senso. L'io narrante fa scherzi telefonici, ha allucinazioni, pensieri ossessivi, è solo per sempre anche nell'aldilà. Ho amato questo romanzo perché la fantascienza ha il potere di realizzare gli incubi in modo diretto, mostrando fin dove conduce il compimento di assunzioni vane. (Una barzelletta che si raccontavano i russi durante le eterne code per comprare qualcosa a metà degli anni '70, elogiava la bomba a neutroni di Andrej Sacharov in questi termini: “Toglie di mezzo le persone, lascia le cose.” Pura ironia sovietica.) La solitudine estrema è quella condizione che aiuta l'artista, l'io narrante, a farlo percepire un tutt'uno con il soggetto che guarda. È questa la grande illusione, come una fotografia degli scavi in cui sia stata rimossa la barra di legno bianca e rossa che serve per rendere conto delle proporzioni reali. Io, perlomeno, così mi sento dentro le opere di Pischedda: sono io dietro l'obiettivo, sono io il custode di un mondo in via d'estinzione, sono io che come lo Will Smith di I Am Legend (2007) vado a fare compere in un supermarket post-virus senza cassiere e senza musica diffusa; sono io che come i protagonisti del documentario Guys and Dolls di Nick Holt (2006), amo una bambola e nei giorni in cui deve essere riparata vado in black out; sono io che come il protagonista di Lost Highways (1997) di David Lynch entro lentamente nel cono di buio di un angolo di casa mia, e sparisco a me stesso. La grande illusione si ottiene con l'erosione dei paradigmi narrativi lineari a vantaggio dell'inconscio. Ricordate il nastro d'asfalto di notte della locandina di Lost Highways? Pischedda spesso scatta in auto. Sono tre le direzioni possibili: verso il guidatore, verso il finestrino di lato e in avanti, oltre il cofano anteriore, a frugare nel buio squarciato dai fari, o sulla superficie di una nebbia liquida che si appresta a ingoiare il veicolo. Questa divorante oscurità-medietà è l'inconscio, la corsia di emergenza delle strade noiose di tutti i giorni – non la adoperiamo e abbiamo timore di doverlo fare un giorno. Io amo il genere di Pischedda ‘scatti dal finestrino' o ‘fari nella notte' o ‘corpi sdraiati al centro della strada' perché richiamano al palato un retrogusto californiano di libertà lontano da scrivanie e poltrone, e subito dopo ironizzano sulla poetica del viaggio con tutte le sue romanticissime fandonie sull'evasione. La vista del finestrino è subdola – ti fa evadere dal luogo d'origine, ma anche ti inchioda al reale senza mediazioni – non hai tempo di filtrare ciò che vedi, di abbellirlo o sterilizzarlo. Signore e signori, benvenuti nelle periferie del mondo! Io sono attratto dagli artisti che affondano le mani nei nodi cruciali e non hanno paura di sporcarsi le mani con l'ambiguità. Allora Pischedda, come Morselli, acquisisce un timbro distante, essenziale (Giorgio Manganelli parlò di ‘gelo mentale matematico'). Le foto dal finestrino di Pischedda rimandano a Morselli anche perché ignorano la figura umana, invece presente con prepotenza in altri filoni di ricerca di Pischedda, come il ritratto agli intellettuali sardi in posa, il reportage etnografico e zootecnico, i fotoromanzi, gli incontri per strada, le storpiature grafiche del corpo, i microteatri improvvisati e naturalmente lei, Sua Maestà la Maschera di Carnevale primigenia: l'Artista in persona in tutto lo splendore degli infiniti millimetri della sua immaginazione. Le viste dai finestrini sono la parte lunare del suo lavoro, la sospensione del tempo del consumo del movimento – istanti di velocità ghiacciata e la dedizione al paesaggio naturale oltre l'uomo, seppure narrato attraverso i suoi occhi. La metafisica non deve essere lontano, cercate oltre il ciglio della strada, oltre i cespugli o le nuvole che passano distratte in un cielo di zinco. Dissipatio H.G. termina con un'immagine non negativa, una cicoria in fiore sull'asfalto. Una piccola vendetta. Un'eccezione. Una felice anomalia salvifica. Per questo, per la mostra alla Galleria Quintocortile di Milano, all'artista è piaciuto così tanto il titolo Dissipatio M.P. proposto da Filippo Pretolani.
3. Herzog, il canto di vetro. “Il mio sguardo va oltre l'orizzonte, sino ai confini del mondo. Il giorno non è ancora giunto al termine, ma la fine è qui, davanti a me. Il tempo comincia a precipitare. E dopo il tempo, la terra. Le nubi si addensano. Il sottosuolo ribolle. È il segno. È il principio della fine. L'estremo limite del mondo comincia a sprofondare. Tutto sprofonda, sempre di più. Si rovescia, e cade. Cade. Continua a cadere. E rapito da questo vortice, io guardo. Sento un risucchio avvolgermi, trascinarmi, portarvi via. Io precipito. Scivolo sempre più in basso. È la vertigine. (pausa) Sì, il mio sguardo ora è fisso su un punto di quella cascata. Io cerco un luogo, un rifugio dove i miei occhi possano trovare pace. E divento leggero, sempre più leggero. Il mio corpo si dissolve nel nulla, come ogni cosa intorno a me. Io volo in alto. E da questa caduta, questo volo, il primo sussulto di una nuova terra, nelle acque il ricordo di Atlantide. Io vedo una nuova terra che nasce.” È l'incipit (e al tempo stesso excursus) del film di Werner Herzog Cuore di vetro, del 1975. Sono parole lette fuori campo sopra immagini sgranate e bruciate di un torrente, una cascata e poi anse di un fiume e viste di boschi morbidi. Parole dense e oscure come la mente del suo autore, ma a tratti fulminee e quasi sempre profetiche. Possono essere decrittate come un manifesto estetico; come un'impronta del '68 (“c'è bisogno di distruggere una casa per costruirne una nuova”); o come una riflessione sui torrenti di immagini che premono sui bulbi oculari. Il film è la storia della perdita del segreto per soffiare il vetro rosso in un villaggio tedesco fuori dal tempo. Il film è celebre perché gli attori non professionisti sono stati fatti recitare sotto ipnosi, è infatti il film è ipnotico. Il vetro fragile e prezioso è al centro di un'ossessione collettiva, quel vetro-silicio con cui si fabbricano gli schermi che ci inseguono fino alla toilette. La salvezza di fronte allo scroscio delle immagini è fissare “un punto di quella cascata”. Un punto. Un punto su cui l'occhio può posare il piede e tentare una risalita di senso. La libertà nuova è che quel punto lo spettatore lo stabilisce a piacimento, in un mondo circolare, rotante. Siamo tutti dervisci dello sguardo. Panta rei: datemi un punto e vi solleverò il mondo. Non c'è più inizio o fine, ci sono cascate di immagini che portano in grembo un nuovo inizio in potenza a ogni passo, a ogni frame. Che importa se è preso a caso, importa che da quel punto io faccio gemmare un altro torrente, a dispetto di qualsiasi legge fisica o umana, il mio torrente. In un certo senso, la proliferazione virale delle immagini (sembra Andromeda), fa di noi tutti creativi, tutti critici, lo spettatore inerme non ha più senso. Siamo sfidati a mettere punti nella corrente, nessuno lo farà più in vece nostra. La fluidità, l'ammasso stellare di immagini, fanno brutale appello alla nostra intelligenza. Scoraggiano. Fanno venire il latte della nostalgia alle ginocchia, il rimpianto di un mondo ordinato e ricco di gerarchie. L'assenza di schemi toglie il fiato, produce immondizia e demagogia. Ma superata la vertigine, i margini di crescita individuale sono interessanti. Semmai, il costo elevato è sul piano sociale: ci siamo svegliati più intelligenti ma anche più soli e disarmati, perché i nuovi torrenti di cui siamo artefici raramente combaciano fra loro. Guardiamo al mondo con dolcezza, in un day after immersivo senza superstiti eccetto l'occhio che guarda se stesso mentre guarda.
4. Lussu, a caccia sull'altipiano. Esule in Francia, dopo due anni di sanatori e dopo aver scritto Un anno sull'altipiano, nel 1938 Emilio Lussu si ferma per una settimana nell'albergo Ville Normande, nei dintorni di Parigi, dove Jacques Rousseau aveva scritto La Nuova Eloisa. Lussu replica con Il cinghiale del diavolo, un racconto di caccia e magia in cui si narra di un cinghiale bianco capace di sfuggire alla mira dei suoi inseguitori. È un tributo alla terra d'origine e alle sue belle tradizioni, e alla figura del padre che lo aveva avvicinato alla caccia. C'è tutto l'amarcord della letteratura in esilio e in generale della rimembranza, e il sapore della leggenda popolare che trasforma le balle dei cacciatori intorno al fuoco in poema epico. Gli animali diventano animali-Uomo dalle facoltà magiche. Le persone prendono nomi da pellerossa: Bosco Piccolo, Bosco Grande, Sperone-d'Acciaio… (fra i personaggi ricordo Zio Francesco il Porcaro, che cacciava il cinghiale a mani nude con l'aiuto di tre cani, era capace di fare la posta e al momento opportuno gettarsi di slancio sulla bestia e afferrarla per un piede, rovesciandola sulla schiena). Le azioni sono giudicate in presa diretta. Le anime del Purgatorio si divertono a incarnarsi in animali di passaggio. Molta buona letteratura a cavallo fra Ottocento e Novecento ha imboccato la china del fantastico. Quella di Lussu è una nostalgia critica, perché parla di un mondo in via di estinzione che non è ancora stato sostituito da una nuova civiltà. La Sardegna è terra di caccia grossa e di valenti cacciatori, le distese non sono mancate e la balentia neppure. Pischedda è un cacciatore di immagini, non da fotosafari ma da battute di caccia grossa con la bestia rovesciata nel bagagliaio a fine giornata, e le donne a casa che stortano un po' il naso all'odore di ferum, anche se i cacciatori dicono che nemmeno il cinghiale puzza più come una volta. Ne Il cinghiale cacciatore (1989) l'antropologo Vincenzo Padiglione documenta gli usi e le simbologie di questa disciplina nell'isola. La figura del capocaccia è affascinante, sono settantenni e ottantenni che per settimane si muovono prima degli altri alla scoperta delle tracce, facendo venti chilometri al giorno, comandano con il pugno di ferro la squadra, stabiliscono le poste e spartiscono le prede, amministrando giustizia in caso di conflitti (sono anche ragionadori). “Il capocaccia doveva essere non solo tra i migliori tiratori, ma il conoscitore perfetto della contrada, delle abitudini della selvaggina, e delle tracce. E doveva, al di sopra di ogni altro, possedere uno stile di vita che imponesse rispetto a tutti. Solo così, poteva esercitare la sua autorità. L'ultima parola era la sua, e aveva valore di legge.” (Lussu, op. cit.) All'occorrenza è capace di correre per un chilometro, e naturalmente ha una mira micidiale, può lanciare in aria un bossolo e squarciarlo in due o colpire un'arancia a cento metri. Non è detto che muoia nel suo letto, anzi. Parla poco e – qui arriviamo al punto della faccenda – è in comunione magica con la preda. C'è un filo che lega il capocaccia e il porco selvatico, un filo che sfugge ai compari. Lui sa dove andare, sa dove cercare, sa dove aspettare e soprattutto sa quando sparare. È ubiquo, è la dove serve che sia. È la vera guida, colui che conduce in un territorio sconosciuto, come lo stalker di Tarkovskij. Pischedda è dunque cacciatore e guida insieme: cacciatore perché l'esito della sue escursioni prende la forma di prede visive o concettuali catturate sul campo, con un margine anche elevato di rischio che queste stesse prede sfuggano; e guida perché capace di trascinare gli spettatori dietro di sè, con la gioia del giorno di festa lontano dalla città ma anche l'inquietudine del cittadino alle prese con i lati in ombra della natura.
5. Kish, la lista della spesa. Gli elenchi sono di moda, ferunt. Una vertigine compilatoria si aggira per l'Europa, noncurante di Flaubert che con i volenterosi Bouvard e Pecuchet l'aveva irrisa e seppellita, apparentemente per sempre. Prima Borges, Calvino, Queneau, tutti coloro che hanno lavorato sulle variazioni… Poi Umberto Eco, che con Vertigine della lista (2009) addirittura canonizza le grandi liste della letteratura e della pittura, dallo scudo di Achille a Rabelais e Alighiero Boetti. Anche nel mondo delle immagini l'elenco è diventato un genere: James Mollison ha girato il mondo fotografando i luoghi dove dormono i bambini, Bert Teunissen ha fotografato persone e famiglie in centinaia di cucine sparse per il mondo… Infine la versione pop, con l'acclamato programma televisivo di Fazio e Saviano, che dell'elenco fa uno snodo di intrattenimento e ritualità collettiva (il critico televisivo Aldo Grasso coglie giustamente l'aspetto liturgico dell'elenco à la Saviano). Ma attenzione, gli elenchi non sono tutti uguali. Prendete per esempio questo che segue, assente ingiustificato dal libro di Eco e che perciò riporto volentieri integralmente. È tratto da Giardino, cenere (1965) di Danilo Kish. “Allora egli mise insieme un'enorme bibliografia sugli argomenti più diversi, in quasi tutte le lingue europee, e i lessici furono sostituiti da studi alchimistici, antropologici, antroposofici, archeologici, armonici, astrologici, astronomici, cabalistici, caratteriologici, cartesiani, cartografici, catalessici, cataplessici, causalistici, chiromantici, cinologici, commediografici, comparatistici, confuciani, cosmici, cosmogonici, cosmografici, costituzionalistici, darwinistici, deistici, dialettici, diatetici, dicotomici, diluviali, dinamici, diplomatici, dipsomaniaci, dualistici, eclettici, eclittici, ecologici, economici, ectosmotici, eliocentrici, ellenistici, embologici, embriologici, emoterapici, emozionalistici, empirici, empiriocriticistici, empiriomonistici, enciclopedici, endemici, energetici, entomologici, epicurei, epizootici, eraclitei, erotematici, erotici, escatologici, esorcistici, esoterici, esperantistici, essenzialistici, estetici, eterosessualistici, etici, etimologici, etnografici, etnologici, etologici, eufonici, evangelistici, evoluzionistici, exlibristici, fantasmagorici, fantasmatici, fariseologici, fatalistici, fenologici, fenomenologici, feticistici, filogenetici, filologici, filosofici, finanziari, fisici, fisiognomici, florilegistici, folcloristici, formalistici, freudiani, genetici, genologici, geocentrici, geodetici, geofisici, geognosici, geografici, geologici, geometrici, geopolitici, geotermici, geotropici, germanistica, giudeofobici, giuridici, glaciologici, gnoseologici, gnostici, gramamtici, hegeliani, iconoclastici, iconografici, idealistici, ideografici, idraulici, idrodinamici, idrografici, idrotermici, illusionistici, indeterministici, individualistici, induistici, intuitivistici, ipnotici, ipologici, irrazionalistici, lamarckistici, lartpourlartistici, lessicografici, lessicologici, letterari, machisti, magici, magnetici, martirologici, marxisti, massonici, materialistici, meccanoterapici, medioevalistici, mefistofelici, memorialistici, mercantilistici, metamorfosici, metempsichici, metrici, microbiologici, mineralogici, mistici, mitologici, monoteistici, morali, morfologici, musicologici, nautici, neokantistici, normativi, numismatici, oggettivistici, onomastici, oratorii, organografici, orometrici, osmologici, ottici, paleofitologici, paleografici, paleontologici, panteistici, parassitologici, particolaristici, pietistici, platonici, pluralistici, polimorfistici, politici, quietistici, scetticistici, scolastici, semasiologici, sensaulistici, sionistici, sociologici, sofistici, solipsistici, spiritualistici, stemmatografici, stoicistici, storici, supernaturalistici, tautologici, tecnici, telepatici, teologici, termodinamici, tettonici, topografici, toponomastici, tossicologici, umanistici, uranografici, urbanistici, urologici, utopistici, venereologici, volontaristici, vulcanologici, zoogeografici, zoografici e zoologici.” È un mantra dall'alchimia allo zoo, ogni perla di questa collana-alfabeto si lega a quella precedente e a quella successiva, l'elenco è un ritmo di immagini e alla fine si cade in trance. Anche le immagini di Pischedda sono una collana-alfabeto le cui oscillazioni seguono un ritmo ben scandito e per nulla casuale. C'è in esse spalmata una forza imponente e al contempo ingenua, un desiderio di mostrare tutto il mondo interessante. L'artista sa che perirà strada facendo, come Sisifo che scala montagne russe e svuota oceani, eppure da questa disperazione trae alimento e dolore costruttivo. Se ingenuità vuol dire sapere di fallire prima ancora di partire, allora questa parola si innerva e collega con altre parole cugine: dignità del destino, utopia, curiosità, sopportazione, coraggio, sapere a tutti i costi… Ci sta dicendo, l'Innocente che è in ogni artista, che per nulla al mondo è disposto a rinunciare ad avere una visione del mondo nella sua interezza.
6. Pischedda, dalla Sardegna con fur/am/ore. Prima abbiamo inventato l'arte, poi, più di recente, l'artista – quel formidabile strumento di ricognizione sociale che serve per avvicinarsi alle zone più scomode e impervie, muovendosi agilmente e senza rischi là dove i comuni mortali salterebbero per aria (insomma, un robotino semovente che va a sminare il campo e disinnescare le bombe). Saccente e/o innocente. Alcolizzato e/o drogato. Televisivo e/o cartaceo. Timido e/o star. Ricco e/o straccione. Colto e/o intuitivo. Atarassico e/o rompiscatole. All'artista si chiede molto e in cambio gli si perdona quasi tutto, è una maschera del carnevale. E anche oggi, nell'epoca della creatività diffusa e dell'artista-progettista, questo imprinting è ancora molto presente: noi cerchiamo l'artista per la sua diversità, e siamo felici quando resiste alla nostra ansia di inglobarlo e omologarlo. Spogliando alla rinfusa i materiali per un ritratto della persona, possiamo definire Pischedda un artista puro (per pudore tralasciamo la parola eversivo in quanto poco ormai resta da evergere, infatti il verbo stesso si è perso per strada, a differenza dei cugini divergere e convergere). Si muove su tre assi: x per provocare, y per sedurre, z per coinvolgere. Pischedda se ne sta nella sua isola a lungo, nube che cova la saetta, poi cala in continente per azioni estemporanee qua e là, infilandosi nelle pieghe del circo. [Le sue puntate in continente ricordano le calate di cui racconta il basagliano Giorgio Antonucci, quando l'onda della contestazione lambì gli ospedali psichiatrici e i parenti dei malati più poveri e derelitti appunto calavano periodicamente dall'Appennino emiliano giù in pianura, a Imola e altrove, per controllare di persona che i dottori trattassero bene gli utenti del servizio – in questo caso i matti siamo noi, e Pischedda è lo spirito di Basaglia.] Si muove per affinità più che per strategie, e come possiamo chiamare questa attitudine se non purezza? Più spesso si rivolge alla Sibilla del suo blog, interrogando i seguaci sull'efficacia delle sue immagini, quella è la sua vera esposizione permanente in permanente rotazione. Parla spesso dei suoi amici, dall'“uomo più visionario del pianeta” Enrico Ghezzi all'artista Robert Gligorov, dal curatore ferrarese Roberto Roda agli amici più recenti, come lo scrittore Alfredo Accatino (di volta in volta Htino o Alfredino) o chi scrive, che si pregia di essere stato accolto fra i membri di questo club senza fissa dimora ma fluorescente per inventiva. Pischedda stuzzica, gioca, provoca, ride da solo alle sue battute e incita gli interlocutori a compiere gesti strampalati o senza finalità dichiarate. Un life coach? Sì, ecco la nuova frontiera del fare arte: mettersi al servizio delle persone. È affascinante il suo talento nel saldare gli opposti: da una parte l'isolamento geografico, il passo della provincia estrema (l'isola), l'alterità dell'artista, l'assoluta impermeabilità agli schemi del sistema (provate anche solo a chiedergli una biografia per una mostra); dall'altra l'apertura, la community, la circolarità con altre persone interessanti. È in questa direzione che possiamo leggere la sua performance nel cortile di viale Bligny 42, a Milano, in occasione di Dissipatio M.P., in quel casermone vecchia Milano animato da spacciatori nordafricani, travestiti e ben tre gallerie d'arte… Ha usato la piazza del cranio per una piccola pira di compleanno, girando al centro del cortile come l'asse del mondo, ben centrato nel suo abito nero Armani indossato per l'occasione. Pischedda, lo si è percepito bene, era in missione per conto di un senso più alto, tutto ancora da formulare. L'irriverenza è solo uno degli aspetti della sua ricerca, ed è funzionale alla sua copertura per non essere intercettato dalle forze avversarie. Performance classica e memorabilissima – il corpo officiante come tela da inzuppare e riempire di senso, il luogo come catalizzatore della reazione. Avere a che fare con Pischedda è piacevole ancorché imprevedibile e inusitato, un Uomo-Cipolla a più strati che fa convivere gli opposti, un multiverso talmente dandy da dimenticarsi di allacciare le stringhe almeno una volta a settimana. Grazie al cielo (e grazie a Pischedda), l'arte è ancora furore. È ancora amore.
Eugenio Alberti Schatz
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