[20/4/2001]
Count-Down design
Parole (e cose) in libertà
I. Le parole danno sapore
Due grandi ventilatori dall'aspetto di medioevo tecnologico, un po' anni '40, di quelli che si usano negli studi cinematografici per muovere i fiocchi di neve artificiale. Presi e trascinati all'ingresso di un'augusta biblioteca che contiene tutte le parole, gli articoli, le epistole e le opere mai scritti e tradotti sino ad oggi. E infine accesi, per creare un turbine di caratteri che come una pioggia gioiosa escono dai volumi impolverati, dagli scaffali abitati dalle termiti, e passando in lunghe colonne di fronte alle lenti impassibili del guardiano di turno si precipitano fuori, salgono in aria e si disperdono sulla città come semi di significato – piccole matrici di un'unica babele genetica dell'umanità. La memoria.
Questa volta il bando di Count-Down, dopo le cartoline ispirate a Calvino, ha invitato gli autori a cimentarsi con le forme tridimensionali utilizzando gocce scritte di parole, alla ricerca di binomi fra parola e forma, nel solco di una tradizione che non è difficile far risalire alle avanguardie dada. Che utilità può venire da questo libero gioco di associazioni, oltre al gusto infantile di un'esplosione di creatività? La risposta è nel valore dei prototipi esposti e nell'ampiezza dei territori esplorati da un'azione collettiva con un medesimo punto di partenza per tutti – nella migliore tradizione di Count Down – e produce una sorta di survey sullo stato dell'arte della nostra capacità di fantasticare con gli oggetti.
Un commento di fondo, comunque, è lecito farlo. Gli oggetti di design e i mobili (ma anche le opere d'arte) stanno sempre più diventando come i vestiti, un segno della personalità di chi li possiede. Un segno ad altissima frequenza di ricambio, poiché i cicli di vita dei prodotti si accorciano e sono sempre di meno coloro che si sottraggono a quelle metamode chiamate stili di vita. Si cambiano gli arredi come il guardaroba. Questa volatilità psicologica dell'oggetto – e non importa se gli oggetti siano funzionalisti/rigorosi o espressionisti/colorati o etnici/lontani – comporta una riduzione del serbatoio di memoria che ogni oggetto reca con se. L'atavica caffettiera, la credenza in cucina, la sedia a dondolo del nonno, l'abat-jour e il leggio in biblioteca che formavano il paesaggio domestico dell'infanzia, con il tempo entravano a far parte del languido giardino della memoria, ma erano soprattutto un elemento di una storia più grande: la famiglia, l'epoca. Gli objet de culte degli anni '90, mi pare, per quanto bellissimi nel loro essere icone del gusto, servono più a rendere una mappa mentale dei loro proprietari, ma raccontano meno delle famiglie che vivono nello stesso spazio (sempre che ne esistano ancora).
C'è un deficit di memoria. La sovrabbondanza di progettazione e di produzione di oggetti di un'industria sempre più attenta alle esigenze del singolo (è l'epoca del marketing su misura) rendono gli oggetti molto visibili e vicini al nostro immaginario, ma scarni di riferimenti sociali, sull'orlo di un'afasia di senso. Per recuperare un sostrato di memoria – per farli parlare – ecco l'ancora della parola decontestualizzata ed esibita come un passe-partout che dà evocazione e consistenza. La marca – una parola che evoca per definizione il quotidiano – diventa messaggio prima nell'arte (Pop Art) e poi nella moda (Armani, Moschino), trasformando il vestito in media di comunicazione. Oggi la t-shirt, che discende dalle felpe delle università americane e in generale delle divise sportive, può essere classificata a tutti gli effetti come un veicolo di comunicazione di massa.
Questa richiesta d'aiuto alla parola coincide con il fenomeno contrapposto – la migrazione della parola dai luoghi deputati (il libro, il documento ufficiale, i poster, le lettere) verso nuovi lidi: i siti Web, i CD, ma anche il corpo umano (tatuaggi). È singolare che il secolo che ha visto il trionfo dell'immagine in tutte le sue applicazioni filosofiche e materiali si chiuda con una bella riscossa della scrittura: dai film di Greenaway, al risveglio della calligrafia, alla rinascita della radio come strumento di comunicazione pensata opposta ad una comunicazione vista. Stiamo tentando di dire che la scrittura è di moda, forse anche come effetto collaterale delle nuove tecnologie informatiche. E la scrittura non può fare altro che produrre testi. Cioè sapori.
Calvino è il nume tutelare dell'avventura di Count-Down. Per ragionare sulla vitalità del testo, chiamiamo sul banco dei testimoni il Calvino francese, più razionale e nello stesso tempo più spregiudicato del nostro: Roland Barthes. Nella sua bellissima lezione di investitura al Collège de France (1977), Barthes, dopo aver ricordato la famosa tesi sulla lingua come strumento di coercizione, sostiene che “la letteratura si ritrova ovunque le parole hanno sapore (in latino, sapere e sapore hanno la stessa etimologia). Il gusto delle parole rende il sapere profondo, fecondo.” La sua ricetta esistenziale: “Nessun potere, un po' di sapere, un po' di saggezza, e quanto più sapore possibile.”
II. Un'ipotesi di catalogazione
Combinare parole e oggetti è un gioco nobile e antico, che ha lasciato una lunga scia lungo tutto il secolo che si è chiuso, dai ready made di Duchamp agli objet di Man Ray, ai Merzbaum di Schwitters, fino alla pop art americana e nostrana: Piero Manzoni che firmava le sue sculture viventi non costruiva forse un oggetto-testo? I grandi del dada avevano dentro tutta la carica antiproduttivistica e antimeccanica dell'espressionismo, e denunciavano la ‘catastrofe del linguaggio', ‘lo scandaloso vuoto del pensiero occidentale'. Oggi, chiusa la grande stagione delle avanguardie, i nipotini del dada si ritrovano nel mezzo di un'età ellenistica a cercare, non senza una certa ansia, di ricomporre i pezzi di un pensiero alternativo alla Grande-onda-che-tutto-rulla in una prospettiva – salvo rare eccezioni – rigorosamente personale, autobiografica. Il particolare diventa generale. I prototipi in mostra possono essere ricondotti a quattro aree tematiche, indipendentemente se si tratti di oggetti provvisti di un uso o invece concepiti per un'esistenza artistica gratuita.
1. Vicini al testo
Sono i progetti che hanno una forte vicinanza con la parola e il suo contesto tecnico, che cavalcano la citazione mantenendo uno stretto contatto con il carattere fisico della stampa: la tipografia, il refuso, l'opera letteraria, il giornale, la libreria. Angela Caremi ci arma di uno Scolarefusi per ripulire l'ambiente dalle sviste, mentre Lilli Bertoni e Simone Sanfratello con la coperta di Warmwords usano le parole per scaldarci. Tiziano Bono, Isabella D'Amato, Paolo Boni & Fabio Sonnino, Giovanni Panizon firmano fermalibri, scaffali e contenitori. Ciro Gallo allestisce la scena teatrale con le lettere autografe di Donizetti, Gabriella Dorligo e Maurizio Martinelli usano brani del racconto La pietanziera di Calvino per tenere in caldo la minestra.
2. I gadget
Uno dei mezzi per insegnare ai bambini l'uso dell'alfabeto è il gioco: lettere coi magneti, patatine a forma di lettere, cubotti di legno, e così via. Ogni parola è un continuo assemblaggio fino al risultato voluto e corretto. Gli autori che hanno giocato con le lettere – ne siano o no consapevoli – alimentano una feroce ironia sull'analfabetismo di ritorno nella civiltà dell'immagine. Gli adesivi interattivi di Clara Bona, Elisabetta e Betti Sperandeo sono strumenti di décor che personalizzano gli oggetti della casa. I cubetti di ghiaccio Tutti dicono I love you di Sandra Gelmetti, Stefani Beltrame e Costanza Benetti Genolini si sciolgono nel bicchiere di whisky alla velocità di un innamoramento che svanisce. Ma & Pa sono le tovagliette un po' dada, appunto, di Mimi Farina per fare colazione in cucina rimanendo sempre giovani. Ines Paolucci e Daniele Statera accatastano in modo entropico le lettere dei bambini sul tubo di una lampada. Gae Aulenti appone delle grottesche e tautologiche didascalie sul toaster e sul frullatore, forse rivolgendosi a un buon selvaggio che si è introdotto furtivamente nella sua cucina e potrebbe confonderli, mettendo una fetta di pane nel frullatore. Marco Bay ed Elena Ghiretti (studio a Milano in via Santo Spirito) vorrebbero mettere la campana-souvenir Imarose al posto della granitica scalinata di Aldo Rossi (non hanno detto così, ma definiscono la campana un oggetto di arredo urbano). Molto raffinato il gadget concettuale di Marco Appiotti e Cosma Calzone, Sinonimo&Contrario: un piccolo memo a muro per dirci che certe volte il contrario è più spiritualmente vicino all'originale del suo sinonimo.
3. Gli oggetti-testo naturali
Si possono così definire quei progetti che sono riusciti a sviluppare un incontro non forzoso fra forma e parola, in cui l'una e l'altra lavorano insieme per creare una funzione d'uso efficace e un effetto estetico gratificante, con modalità che i matematici definirebbero eleganti. Il sofisticato segnaposto di Silvia Malcovati – più una segnalazione che un prototipo – è una forma esemplare di oggetto che regge il proprio significato, peraltro un oggetto di uso comune nelle case bene (almeno una volta). La penna corporale di Antonio Seta, realizzata da Enrico Cigersa, non si accompagna a parole: serve a scriverle. È dunque uno strumento a disposizione di chi vuole scrivere poesie a caldo sulla pelle dell'amata o frasi di odio sul cadavere del nemico, con l'unico limite dettato dalla superficie complessiva delle pelle di un corpo umano. Il madrileno Enrique Sacanell ha mandato una poltrona di netta matrice Bauhaus che parla con parole suadenti ed esplicite: Tryme. “Provami, non aver paura, sarò comoda per te.” In effetti le parole possono essere accoglienti e morbide, pur se in acciaio cromato.
4. Una storia di evasioni
In quest'ultima sezione si possono raggruppare quei lavori che per forza poetica ottengono un effetto di spaesamento e innescano una réverie, un'evasione ad occhi aperti. Chi li usa, si trova catapultato come Robinson Crusoe in un'isola lontana, dove ci si nutre di versi, tramonti e sentimenti incontaminati. Franco Lancio, da Trieste, ha mandato Isolario, “un kit di salvataggio che contiene trenta isole, trenta messaggi in bottiglia, una barca a vela per spostarsi di isola in isola, un libro per tenersi impegnato durante il viaggio e una carta nautica per rientrare a casa... se si vuole.” Paolo Ulian usa la spiaggia come superficie bianca e le ciabatte infradito giapponesi come timbro per messaggi d'amore. Giorgio Drasler realizza Pasodoble, l'opera forse più duchampiana, che non ci porta lontano ma in compenso ci fa sorridere di cuore: è un surreale quanto utile esclamatore acustico per chiamare i bambini a tavola, che fanno finta di non sentire perché il loro cartone animato non è ancora finito. Tommaso Ottieri e Pietro Renna, dello Studio Mero di Napoli, firmano Petite Madeleine, forse l'opera più bella della mostra, un pouf in omaggio a Marcel Proust e al suo mondo di “sontuosi divani, dormeuse e pouf”. Il pouf è stato realizzato dall'Antica Tappezzeria d'Arte Poderico di Napoli. Per Proust il biscotto era un acceleratore di memoria, uno strumento della tecnica letteraria del ricordare. Per tutti noi la madeleinette è diventata il simbolo della memoria stessa, del recuperare mondi, età, atmosfere trascorsi ma capaci di tornare. Il pouf dal lussuoso velluto rosato e dalle morbide e leggermente inquietanti fenditure sta a noi come l'amabile gusto di mandorla della Petite Madeleine stava a Proust: con tutta la discrezione di una cosa semplice, con tutta la forza e il turbamento di un amarcord. Immaginatelo in un salotto di Palazzo Cellamare a Napoli e accomodatevi: qualcosa sgogherà dai vostri ricordi. Qualcosa sgorgherà sicuramente.
Eugenio Alberti Schatz
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