[23/5/2002]
Enzo Castagno
Stabile instabile
Enzo Castagno, dalle caverne della terra alle grate del cielo
Le immagini del fuoco sono, per l'uomo che sogna e che pensa, una scuola di intensità.
Gaston Bachelard
Proprio Bachelard, tracciando una poetica del fuoco, scriveva: ‘Il fuoco non è mai immobile: vive quando dorme.' Sempre in bilico fra scintilla e incendio, fra conforto e rischio, è l'idea stessa del bruciare, del consumarsi per purificarsi e rinascere. Giocare col fuoco vuol dire giocare con le fonti della vita. Con cinismo di taumaturgo lo scultore plasma, cuoce, cola e incendia i suoi figli minerali, cambiando i connotati alla materia come se fosse la mascella di un avversario. Sport violento e filosofico, quello della scultura.
Enzo Castagno da anni lavora alla costruzione di una moltitudine di cilindri bucati, dall'aspetto a seconda più vetroso-lavico o più pietroso-poroso, cuocendo l'argilla ad altissime temperature in un forno di ghisa che campeggia nel suo studio e che incute una certa soggezione (ci sta dentro un uomo ranicchiato). È un lavoro alchemico, fatto di continui tentativi e fallimenti per trovare la composizione adatta e la curva del calore che serve.
Ciò che estrae dal forno è però solo il materiale di partenza della sua costruzione di senso. Qui finisce il ceramista e inizia il narratore geometrico: i cilindri sumerici diventano reti bi- o tridimensionali, abachi avvolgenti che portano il vento della matematica e dell'urbanistica. Quasi che senza una mediazione astratta non si possa sostenere lo sguardo dello spazio non-organizzato. Quasi che senza rete saremmo perduti, naufraghi sugli scogli del caos o negli abissi del vuoto.
Il disegno della rete è netto, chirurgico, anche quando esce dai cardini. Come in Senza titolo, dove l'enigmatico quadrato di sinistra cede e nella porzione di destra cade a novanta gradi dalla parete per tendere un palmo concavo verso chi guarda – una mano che invita a entrare o a donare. Come in Senza titolo, dove un altro quadrato si priva di alcuni elementi per colonizzare lo spazio attiguo con una fondazione rotonda. O ancora in Senza Titolo, dove il centro ospita una citazione della propria dissezione – un arto fantasma con la traccia delle maglie impressa a fuoco. Di questa serie impressiona Bisanzio, che gioca con repentini cambi di assetto del piano, aprendo e chiudendo le porte della storia. Tutto è decadenza e riscossa, libertà e oppressione – maledettamente e irreversibilmente intrecciate.
Oltre alle griglie a parete, il refrattario viene usato per edificare vere e proprie costruzioni, come la pira geometrica color ocra nelle dimensioni magiche 30x30x30 di Senza titolo. Perfetto paradosso: una pira resistente al fuoco. Oggetto pericoloso e illusorio, sirena di morte in cui cospirano spazio curvo e spazio lineare (un riflesso mnemonico ci riporta in India o nella Roma antica). Reca l'impronta ancora calda di un piccolo corpo appena allontanatosi. Si dice così, peso morto, perché pesa di più. L'assenza invoca un oblio contagioso. Viene voglia di adagiarsi e lasciar cadere nel dormiveglia un cerino acceso. O la cenere di sigaretta, come faceva Salvador Dalì inseguendo i fantasmi della propria ispirazione.
La seconda costruzione che troviamo è un altare domestico, Lari appunto, o meglio un tempio in scala. Contiene una massa nera e lucente di origine ignea anch'essa, una matassa ottica che assorbe i raggi della luce. Potrebbe anche essere una finestra sulle origini del mondo: dove tutto finisce, tutto può avere inizio. Ciò che è rilevante – ma è solo un suggerimento, perché le letture si aprono a raggiera – è l'archetipo di casa dello spirito di fronte al quale pregare il dio di una religione individuale. In termini geometrici, potremmo definirla un'aporia: la quadratura del quadrato. Solo che i bracci esterni slittano in un movimento centrifugo, e il quadrato diventa elica, diventa anticipazione di quel tema dell'infinito che vedremo essere centrale in un altro lavoro in mostra. Non ha importanza capire se sia più forte la struttura rossa esterna o il cuore nero interno: sono in contatto e formano una stele misteriosa. Ciascuno, privato dell'altro, sarebbe un tempio senza aura.
L'universo è fluido e cangiante, il linguaggio rigido.
Jorge Luis Borges
Lo sguardo si placa. Atterra su un suolo soffice. Mente e retina si allineano come i bastoncini di un magnete inducendo uno stato di sospensione. È in questo cono rallentato della percezione che per incessanti scontri sotterranei, fra cose che si vedono in cielo e cose che si agitano al microscopio, fra forme nuove e simboli primigenii, nasce la coscienza dell'arte. L'arte ha questa terribile proprietà di generare delle cose sul limitare dell'inconscio, dentro e fuori, dentro e fuori. Per questo forse ci turba come un funerale o ci esalta come un fuoco d'artificio?
Chi frequenta l'arte astratta sa che un occhio rigido e petulante non porta lontano. Il gioco è più sottile. Occorre fare un atto di fiducia nell'autore e lasciarsi condurre – dove, non si sa – bisogna insomma ben essere capaci almeno per pochi attimi di lasciarsi alle spalle lo zaino di informazioni che ci incurva gli occhi se si vuole vivere il privilegio della partecipazione. Dopo, solo dopo, potremo riavviare le macchine, riaprire gli occhi della cultura e collocare il lavoro in un'epoca, una biennale o in ogni altro castello di significati che si desidera.
L'educazione a uno sguardo rallentato: è questo il nocciolo del problema, se si assume che l'arte è più che un semplice linguaggio di genere.
In altri spazi la luce ha piantato le sue tende gioiose.
Novalis
Come generazioni di romantici tedeschi, nel regno dei minerali e del suottosuolo Castagno vede una porta sull'anima del mondo. [Da Novalis, figlio di un aristocratico direttore di saline e lui stesso impiegato prima alle saline di Wiessenfels e poi nell'amministrazione delle miniere della Sassonia, che scriveva nei suoi invasati frammenti ‘La natura possiede spirito, umorismo, fantasia.' Fino a Robert Musil, che nella novella Grigia, ricca di tracce psicanalitiche, ambienta la morte dell'ingegnere protagonista nella galleria di una miniera.]
Vale la pena di ritornare sul forno di Castagno, acceleratore di stati latenti della materia: il calore che accompagna fino allo stato del plasma e poi il ritorno alla normalità con sulla pelle il segno della discesa agli inferi. Succedono cose impreviste a quelle profondità, le forme si arrendono alla carezza dell'onda termica e nulla possono contro il destino che si portano dentro. L'artista racconta di come appoggia il vetro macinato sulla terra, di come in forno la pasta venga assorbita sottocute e poi restituita di nuovo in superficie, lucida essenza legata a corpo opaco. E di come affiori il colore, un colore catturato e mutevole che origina da gallerie e paure oscure ma che ha conquistato il diritto ad emergere, strenua concrezione sopravvissuta a se stessa e al forno che non conosce la pietà. Alle alte temperature alcuni colori svaniscono, altri invece fioriscono. Si distilla tutto un campionario di spettri fotonici. Secondo Castagno “Dall'oscurità nasce la luce.”
E anche se gli riuscisse non servirebbe a nulla; c'è ancora da attraversare tutti i cortili, e così via per millenni.
Franz Kafka
Prababilmente l'opera risolutiva della mostra, quella che compendia il ciclo in atto e inagura il ciclo futuro, è Corpo refrattario, il grande monitor magico composto di 16 pentagoni asimmetrici.
I pentagoni di Castagno potrebbero crescere all'infinito. Il colore cambia leggermente, l'enigmatico organismo manda silenti bagliori. Potrebbe divorare la parete, la galleria, la città… senza alcuna possibilità di essere bloccato. È una vertigine sull'abisso delle proiezioni statistiche. Come in un esperimento di fantascienza che potrebbe fallire da un momento all'altro, dentro quella stalattite logica si intravede un rischio di deviazione. (C'è tutto un filone cinematografico sulle epidemie, in cui non manca mai la scena dove l'esperto illustra la catastrofe della progressione geometrica del contagio. Nella sua creatura Castagno opta per una risonanza geometrica del quadrato magico, in cui la somma dei numeri riga per riga risulta invariata (ricorda Castagno il quadrato citato da Albrecht Dürer in Melancolia I del 1514). Qui la struttura si innerva di sottofigure simmetriche, generando almeno in alcuni casi uno spazio costante. Nessuno può garantire su quanto a lungo questa alleanza di forze possa reggere: memento di instabilità attraverso un saggio di apparente imbrigliamento della disgregazione. La geometria delle figure diventa geometria dei flutti. Il punto di rottura potrebbe non essere lontano. Nell'attesa, si formano e si consumano le infinite combinazioni caleidoscopiche della figura. L'infinito è il dito che fa franare la diga, è l'ipnotizzante variabile della follia che ha affascinato gli uomini di fede e di scienza, da Zenone e Aristotele a Leibniz e Bruno.
Vengono in mente i motivi degli azueljos smaltati del medioevo andaluso, dove stelle e motivi geometrici formano una texture regolare ma anche una sequenza di contropiani, come i frattali di Mandelbrot, così che se li guardi a lungo vengono un po' le vertigini. Non vertigini per l'altezza, quanto vertigini da progressione. A seconda che si guardi il piccolo o il grande, il senso cambia.
L'ente geometrico contiene il virus della moltiplicazione e può divorare la parete in n secondi, ma può anche rimanere immobile per secoli. È in ogni caso una forte metafora dell'instabilità sociale. Di una rete deforme e facile preda di disequilibri. Di un'instabilità che secondo il pensiero liberista dovrebbe essere portatrice di sviluppo e opportunità, e che noi invece subiamo come agente di erosione della terra sotto i piedi. Corpo refrattario è il manifesto/confessione di quanto ciascuno stenti a capire e far proprio il mutamento.
Fra i contrari si forma spontaneamente un simbolo di unità e di totalità, non importa se giunga o meno alla coscienza..
Carl Gustav Jung
La ricerca di connessioni simboliche e il gioco simultaneo su diversi piani di lettura sono il segno di una piena maturità di linguaggio di Castagno, che partendo da una materia liquefatta e instabile per definizione arriva a costruire linee e impianti architettonici quasi morali nel loro nitore classico. Dalla malleabilità dello spazio, oggi nasce il cristallo della forma. (Seppure l'evoluzione in potenza continui a covare sotto le ceneri di un impianto raffreddato.) Dagli antri di una natura oscura e romanticamente solipsistica si è risaliti al consorzio degli uomini, al presente, al sociale verrebbe da dire. D'altronde la rete – questa pervasiva fino ai limiti dell'ossessione metafora prodotta dal Novecento e incarnatasi nell'alveare del web – è una delle chiavi per leggere un mondo globale avvitato su se stesso. Le reti di Castagno danno voce a un mondo che pensa e agisce tutti-insieme-nello-stesso-momento e che ha consacrato l'idea della rete a modello sociale. Ma contemporaneamente si fanno carico di una responsabilità critica, mantenendosi a debita distanza dai cliché positivisti: non è ancora dimostrato che la rete governi meglio di altri sistemi l'instabilità. Cioè la sfida di far coesistere l'individuo e il gruppo, di trovare un equilibrio fra pulsioni libertarie del singolo ed esigenze di pianificazione del sistema.
Sono passati 13 anni dalla prima personale di Castagno alla Galleria Grossetti, quando in catalogo Fabio Inglese scriveva di ‘emorragia plastica' e terra intesa come ‘carne'. La ricerca ha spostato il suo fuoco – ieri materia e natura, oggi simboli e vita di relazione – ma resta la coerenza del disporre i fatti sull'asse stabile/instabile. I due poli di ogni possibile evoluzione, nell'arte come nella vita.
Eugenio Alberti Schatz
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