La boccia d'oro
Una storia quasi vera
Faccio il paparazzo da più di vent'anni, e oggi forse è il giorno più importante della mia carriera. Se penso a quanti panini gommosi, a quanti caffé inaciditi, a quante botte in faccia dalle guardie del corpo e a quante macchine fotografiche scagliate per terra. A quanti pomeriggi vuoti e interminabili passati ad aspettare, solo aspettare. Aspettare, e poi magari niente, la preda cambia tragitto e io resto là, all'asciutto. Se penso a tutto ciò, beh, vent'anni non sono uno scherzo. Oggi il direttore della rivista
Bagliori mi ha confermato che sarò l'unico fotografo inviato dalla testata a coprire l'evento del terzo millennio: l'incoronazione di Caterina Romanova a Mosca. Sì, lo so che al Cremlino ci saranno più di 2000 reporter accreditati da tutto il mondo, e in fondo le foto saranno tutte uguali, senza il brivido di un vero scoop. Però è pur sempre un bel traguardo. Posso dire di essere un professionista arrivato, percepisco intorno a me una certa autorità e non so come, ma mi ritrovo sempre in prima fila a posare il treppiede e a puntare il mio strumento sparaflash, senza affanno. Non devo più nemmeno sgomitare, saranno le mie spalle larghe, il mio stomaco dilatato, o forse quell'oscura destrezza con cui i camerieri esperti servono, senza correre, il triplo dei tavoli che serve un cameriere novello correndo come un maratoneta. Insomma, nel mio campo sono, come si dice, un'autorità. I giovani mi portano rispetto, le star e gli addetti stampa mi cercano sul cellulare, i colleghi anziani mi temono, e sono anche andato alla televisione a parlare della mia professione.
E così ancora una volta butto uno sguardo all'indietro, a venti lunghi anni di appostamenti, agguati e corse al laboratorio per sviluppare gli scatti. Guardo fuori dalla finestra i tetti bagnati di questa città grigiastra, e mi chiedo: ma qual è stato il mio primo, vero servizio? La domanda è retorica, so benissimo dove andrà adesso la mia mente annoiata da un lavoro che è poco più di una scialba routine. Andrà a quel pomeriggio di giugno, quando lo stesso direttore che mi manda oggi a Mosca mi convocò nel suo ufficio infestato di toscano. E senza levare gli occhi dalla settimana enigmistica che stava accuratamente compilando, mi disse, palleggiando il mozzicone ciancicato da un angolo all'altro della bocca: “Senta, Borlotti, voglio darle un'occasione: Lei è giovane e si merita una chance. Siamo a corto di storie, e il capo redattore ha pensato a un servizio di colore, di quelli che noi chiamiamo ‘parafango'. Insomma, ha capito, si prende una vicenda qualunque di un ambiente qualunque, il più piatto e insignificante, e si fa un reportage appioppandogli un titolo tipo
Gli italiani si divertono così... Borlotti, mi sente? Questa volta abbiamo pensato alle bocce.”
Il ricordo delle parole del direttore mi riporta indietro nel tempo: eccomi a rivivere ogni istante di quella gloriosa giornata, come se fosse oggi.
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Dopo aver requisito senza tante storie la Simca verde di mia sorella, impiegata alle poste, eccomi sfrecciare verso il piacentino seguendo le indicazioni di un fax tutto stropicciato che invita a un fantomatico torneo di bocce. Posteggio la Simca molto lontano, perché mi vergogno, però sono molto fiducioso sul mio futuro, e in fondo anche Van Damme prima di sfondare dormiva in un'utilitaria in qualche stradina di Los Angeles, e sono sicuro che anche lui la posteggiava lontano dagli sguardi delle arcigne segretarie a cui si annunciava con il sorriso della disperazione stampato in volto.
La prima sensazione è di smarrimento. Mi aspettavo un circolo di vecchi ubriaconi, ex-partigiani o qualcosa di simile. E invece quasi tutte le macchine sono sopra i duemila di cilindrata, molte sono targate Milano. Un grande via vai di gente, di belle donne e anche di stranieri. Insomma Borlotti, mi sono detto, il tuo direttore ti ha fatto un bello scherzo, ti vuole mettere alla prova. Le macchine sono posteggiate dappertutto, lungo le siepi, dentro i campi, fin sotto le dolci colline che iniziano a scendere non molto dolcemente, poco distante dalla strada sterrata. Una folla di curiosi si accalca dietro le transenne e i soliti fotografi recitano il loro rosario di tendine che scattano a ripetizione. Le pale dell'elicottero dei carabinieri ringhiano sopra la casa e il campo di bocce. Sono alla Pianotta, la tenuta dei Marietti, e come poi verrò a sapere, i carabinieri vengono tutti gli anni a controllare la
manifestazione.
Il torneo è nel vivo dello svolgimento: si stanno disputando le semifinali.
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Regola numero uno del paparazzo quando si arriva in un ambiente nuovo: conquistarsi la fiducia del personale di servizio. Devo dire che fatico non poco a capire che quella signora dal nobile aspetto teutonico che mi sta asciugando il vino sulla camicia (avrete già capito, da me appositamente rovesciato) si chiama Gertrude ed è la fedele governante di casa Marietti. In compenso, però, non mi è difficile farmi fare da lei una scheda completa sulla famiglia, sul pubblico del torneo, sulle figlie da maritare e quelle già maritate, sui giocatori favoriti e su quelli che non vincono mai. La terza figlia, la più giovane, si chiama Genziana, e compie proprio oggi ventun anni. Non oso guardarla per più di dieci secondi di seguito, tanto è pericolosa, e tanto forte è la mia paura di lasciarci le penne.
Vengo presentato alla padrona di casa, la signora Kety, una persona di gran stile, di quelle che con un sorriso scoprono qual è il tuo segreto. In qualche modo devo esserle riuscito simpatico, perché sono l'unico ammesso a scattare foto all'interno della tenuta. Sono un po' demotivato, chi se ne frega di queste stramaledettissime bocce, ho già la camicia tutta sudata e non so proprio che tono darmi. Vabbé, facciamo finta di seguire il gioco.
In realtà il gioco è avvicente, e mi bastano poche mani per capire che si tratta di uno sport elettrizzante. Un incrocio fra il crickett, il biliardo e il flipper. I giocatori sono eleganti, spiritosi, si prendono in giro, e tutti si muovono con una certa classe. Sembra un po' la pubblicità del Cointreau girato in Camargue, qualcuno ha anche i calzoni bianchi, ci sono donne e uomini, giovani e vecchi. Un attimo di concentrazione, il corpo si carica come una molla di bambù, il braccio si dondola, e poi via, con lo scatto secco di una freccia gentile – parte la boccia rotolante. Quando c'è un errore, dispiace a tutti, ma quando c'è il punto, non puoi reprimere un piccolo brivido. È come se stessi pescando, e il pesce abbocca con un leggero strappo alla lenza.
Un signore molto gentile, un medico strizzacervelli, mi spiega le regole del gioco. I suoi commenti sono molto divertenti, ma non li capisco tutti perché o sono troppo tecnici, oppure vanno nella filosofia della vita. Anche lui mi conferma che la squadra favorita è il Trebbianino, in cui gioca Turbigo, un dirigente pubblicitario. Turbigo è alto, ben modellato e muscoloso, ha i passi felpati di chi fa molti sport e ha molti soldi. Il suo sorriso però è un po' meccanico (da leader politico, come poi apprenderò più tardi nella mia professione). Non sembra molto interessato alle donne, perché tanto uno così non dovrà certo avere problemi con le donne. Lo osservo. I suoi gesti esprimono equilibrio, precisione, pensiero di gioco. Competenza, strategia, lucidità estrema sull'obiettivo del gioco: vincere. Vincere comunque. Vincere a tutti i costi, sempre, in tutte le occasioni, nella vita e nel gioco. La parola sconfitta non deve mai essere nemmeno pronunciata mentalmente. Lo osservo ancora: è una macchina per fare vittorie, astuta, imbattibile e imbattuta. Turbigo ha i capelli corti, è abbronzato, porta una canottiera griffata Verace e un paio di bermuda Armeni. Ha sempre una parola gentile per i compagni di squadra, una parola di incoraggiamento e se serve anche di sfida, ma sempre positiva. E chi lo batte uno così? Si muove con la grazia di un ghepardo e la ferocia di una murena. Sono le tre del pomeriggio, il sole batte a gogò, tutti si asciugano la fronte, ma lui no, Turbigo non suda. Turbigo non sbaglia. Turbigo non fallisce un tiro. Deve essere proprio un ariano concepito in un laboratorio di ricerca genetica finanziato da qualche gerarca nazista, nella giungla amazzonica. Turbigo: nato per vincere. E infatti vince. A soli trentadue anni ha già vinto tutto, e dagli sguardi che gli lancia Genziana, non è difficile indovinare quale sarà il suo prossimo trofeo (tanto quello del torneo è già suo).
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Le cinque della sera. Partita di finale. Contro il Trebbianino scende in campo la squadra della Malvasia, e non ci sono dubbi su chi è il toro e chi il matador. Il caposquadra della Malvasia è Fiaschini. Si è trovato per caso a capo di una squadra che si è trovata per caso a superare le semifinali. Gioca così così. Svogliato, distratto, impreciso, sgraziato. Si incazza pure: con il pubblico, con i compagni di squadra. L'arbitro l'ha già ripreso due volte. Si incazza soprattutto con le bocce, che poverine, sono gli strumenti del gioco e non possono certo essere colpevoli di un tiro malandato. Ha delle vecchie scarpe da tennis Superfia, un paio di calzoni macchiati di vernice e una maglietta di sottomarca (l'ho visto subito che il coccodrillino era girato al contrario). Gli occhiali sono sporchi, e dalla tasca penzola un fazzoletto che è meglio non descrivere. Fiaschini è nervoso. Mi sono fatto un'idea: continua a lanciare sguardi impauriti con la coda dell'occhio in direzione della misteriosa Genziana. Che sia forse innamorato? Il dottore saggio mi dice che Fiaschini lavora a Milano per una banca cattolica.
Turbigo saluta gli avversari con la sicumera di un capitano di vascello della marina inglese al largo delle Molucche, quando accoglie il capitano di un mercantile russo salito a bordo per una visita di cortesia. Fiaschini grugnisce qualcosa. Le attività collaterali si placano e il pubblico comincia a tacere.
Inizia il gioco.
Le prime mani procedono un po' noiose, prevedibili: il leone che azzanna la gazzella. 3 a 0 (nelle bocce la partita si gioca fino agli 11 punti). 5 a 0. 5 a 1. 7 a 1. 8 a 1. 9 a 2. 9 a 3.
E qui succede qualcosa.
Non è per fare della facile letteratura, e nemmeno per copiare quei melensi film americani sul baseball degli anni '50, in cui gli Orsi vestiti di bianco (fra le cui fila chissà come mai gioca sempre un ciccione) vincono immancabilmente contro i Tori vestiti di nero di Chicago, tutto rigorosamente all'ultimo punto, nel match point. Fatto sta che alla Pianotta le cose stanno proprio così. La Malvasia comincia ad accorciare il distacco. I compagni di Fiaschini, fra cui un'elegante signora non alta di statura, ma ferma di polso di nome Stella, non sbagliano un punto. E quando Turbigo piazza un punto difficile, arriva Fiaschini di bocciata: secco, metallico. Fiaschini, dopo i primi set, si è stranamente rilassato. Si concentra sul gioco. Sul campo non una mosca che vola. Solo sospiri, gemiti, bisbigli.
Turbigo non intacca il suo mefistofelico sorriso, ma i suoi compagni cominciano a dare segni di nervosismo. Portano scritti in volto pensieri come “Ma davvero questi vermiciattoli della Malvasia credono di poterci sfilare la vittoria come una baguette dal sacchetto della spesa?”.
La vittoria è vicina, ma si allontana. 9 a 4. 9 a 6. 9 a 7. E infine, il fatidico 9 a 9. Agganciati. Turbigo perde l'aplombe. Ad un certo punto, probabilmente senza farlo apposta (ma chi può dire di conoscere davvero l'animo degli uomini?) dà una spinta con la spalla a Fiaschini, che quasi perde l'equilibrio.
L'arbitro è talmente nervoso che chiede una pausa.
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Il gioco riprende. Turbigo non si fida più dei compagni, e capisce di essere rimasto da solo a difendere il risultato; mentre Fiaschini gode dell'entusiasmo di un esercito di legionari romani fedeli al duce che li ha trascinati fin lì, e da cui solo dipende l'ampiezza del lotto di terra che spetterà loro alla fine della campagna. Turbigo si esibisce in un colpo maestro, difficilissimo (un grande esperto a fianco del dottore, il signor Carugoni, assente soddisfatto) e piazza il punto del 10 a 9. La bocciata di Fiaschini prende la boccia solo di striscio (Ooohhh fà il pubblico) Trebbianino in vantaggio 10 a 9. La signora Stella chiede a Fiaschini di tirare per ultima e piazza un punto diabolico: la boccia arriva a fondo campo, all'ultimo secondo schiva il pallino e subito dopo si attorciglia, prendendolo alle spalle. Il pubblico è esausto, non ha più fantasia per commentare il gioco. Il risultato è 10 a 10.
Quella che si sta giocando non è una partita, sono in palio i destini del mondo, e a farne le spese sono i nervi degli spettatori. Ma non doveva essere solo un gioco?
L'ultimo gioco è aspro, le squadre si contendono punto dopo punto. Le bocce si dispongono in un reticolo infernale, in cui non si scorgono più le palle amiche e quelle nemiche. Turbigo va a punto. E fa punto, sulla carta è partita. Turbigo ha messo il risultato in cassaforte, e non riesce a reprimere un orrendo ghigno a metà fra soddisfazione, vendetta e disprezzo.
Tutti gli occhi sono su Fiaschini, e lui lo sa.
Allora mi prende una grande simpatia per questo giovane, come me, e un grande desiderio di vederlo vincere, almeno una volta nella vita. Gli mando un'onda telepatica (ma in quel momento, lo so, lo sento fortissimo, siamo in tanti a mandargli onde simili): “Vai Fiaschini, vinci. Hai la forza per farlo e la boccia giusta. Quella che hai in mano è la boccia d'oro, e tu meriti di vincere.” Siamo in tanti, gli stessi che a una corrida, nel segreto della coscienza, fanno il tifo per il toro. Non è vero che l'uomo si appassiona allo spettacolo della morte: è solo che la ragione profonda di un gioco, di qualsiasi gioco, è quella di sovvertire i pronostici. Tutto il resto è costume.
Fiaschini annuncia la bocciata di raffa e si mette in posizione a metà campo. Pulisce la boccia con calma, con calma adagia la punta del piede a ridosso della linea. Le narici sono dilatate, il respiro profondo e regolare, la mente è vuota. Lo sguardo acuto vede tutto – fin dentro gli steli d'erba. L'udito sente tutto – fino ai dialoghi delle formiche. In questo momento Fiaschini ha un fisico da campione: è armonico, fluido, tecnico. Se solo la sorte ci mettesse una buona parola...
La boccia è calda nella mano e innerva di energia tutto il braccio, su su fino alla spalla. Fiaschini tira. La boccia vola contro il sole, seguita dagli sguardi di tutti gli spettatori che hanno sincronizzato le nuche. E cala implacabile sul campo: punto. Partita. Torneo.
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Ci sono momenti in cui capisci che quello che stai vivendo è un pezzo di storia. Un silenzio metafisico si impossessa di ogni cosa. Pochi, ma lunghi interminabili istanti: quasi un'eternità. Fiaschini l'ha fatta grossa, ha sfidato gli dei, e come Spartaco per brevi, ma preziosi minuti, sta facendo sognare l'altra metà dell'umanità. Quella dei bidelli, delle fantesche, delle staffette, dei correttori di bozze, degli autisti e degli aiuto cuoco. Delle hostess e degli steward, dei vigilantes, dei contadini senza trattori e degli allevatori senza bestie. Dei mozzi, dei macchinisti, degli stallieri, dei parrucchieri e degli estetisti. Dei portinai, dei commessi, dei redattori di provincia e, appunto, dei paparazzi. Dei fioristi, delle camiciaie, degli impiegati e dei precari. Dei guardiani di cimiteri, dei marmisti e degli scalpellini. Dei vetrai, dei camerieri (sia quelli esperti che quelli alle prime armi), dei piazzaioli egiziani e di quelli napoletani. Dei giardinieri, dei manovali e dei controllori. Degli oscuri artisti destinati a non diventare famosi. Degli infermieri, delle segretarie, dei maggiordomi e delle governanti di tutti i tempi. Degli imbianchini, dei carpentieri, dei muratori, dei falegnami e dei meccanici (degli idraulici no).
Di tutti coloro che non si sentono sicuri di ciò che sono e di ciò che hanno. Per un attimo, questa fetta di umanità reietta svegliatasi nei cunicoli della storia, si trova alla ribalta, alla luce del sole. Sul podio della vittoria. È come se tutti i loro volti fossero lì, fluttuanti sopra gli alberi, ad esprimere la loro soddisfazione e a godersi un illusorio scampolo di riscossa.
Poi le prime voci contaminano il silenzio: “Ma chi è questo Borg piacentino?” “Proprio bravo quel fioeu.” “Ma come nasce questo Fiaschini?” Turbigo, incapace di perdere davvero, ci mette poco a improvvisare un contegno di circostanza. Si avvicina e porge la sua bella mano bianca con le unghie curate a stringere la palma sudata di Fiaschini. In fondo che cosa gli costa, un piccolo, fastidioso neo non sporca certo un lungo curriculum di bianche pagine vittoriose. La signora Stella non trattiene due lacrime di emozione. La signora Kety è felice, perché un torneo così emozionante non si era mai visto prima, e anche chi non capisce le bocce, si è divertito in modo tremendo.
Quando Fiaschini ritira la coppa, timido e felice, il padrone di casa, il signor Galiano, lo abbraccia e ha gli occhi lucidi (anch'io). Come a un torneo medievale, Genziana bacia sulla guancia il vincitore....
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Ah, che giornata alla Pianotta. In tutti questi anni mi sono chiesto: che cosa è mai successo sul campo sabbioso della Pianotta? Per quale superiore concatenazione del caso il corso delle cose ha preso una piega imprevista, sovvertendo ogni logica statistica e di buon senso? La risposta non l'ho ancora trovata.
Dopo la premiazione, sono tornato a Milano e ho sviluppato il più bel servizio della mia carriera: non era mai successo che a un servizio ‘parafango' avessero dato la foto di copertina. In quanto ai protagonisti (li ho rivisti tutti, perché nel frattempo sono diventato amico dei Marietti e di molti ospiti della Pianotta), posso solo dirvi che la vita, dopo quel giorno, è ritornata a scorrere su binari più tranquilli. Non per niente Andy Warhol assegna solo quindici minuti di gloria a ciascuno, perché la buona sorte non ne regala di più. Negli anni a seguire Turbigo vinse molti tornei, mentre Fiaschini non riuscì più a superare la soglia delle semifinali. Due anni dopo Turbigo, che nel frattempo aveva aperto una propria agenzia di pubblicità nel centro dell città grigiastra, sposò Genziana. Alla cerimonia parteciparono molti vip e io feci un bellissimo servizio. Alla fine della festa Turbigo partì con Genziana per una crociera a bordo della sua barca. Fiaschini continuò a lavorare in banca, e a pescare o giocare a calcetto con gli amici la domenica. Si sposò con una commessa di un negozio di scarpe di corso Vercelli.
Però, vi devo confessare un piccolo segreto. Nei miei lunghi pomeriggi e serate di appostamenti, quando non ne posso più delle chiacchiere dei miei colleghi e della merda del mio lavoro, e mi sento peggio che un poliziotto a Los Angeles, allora penso a quella magica boccia che il buon Fiaschini ha tirato con tanto coraggio contro il sole. E io so che l'ha fatto per amore di Genziana. Vai Fiaschini, sei tutti noi...
Eugenio Alberti Schatz